The Outsider - CineFatti

The Outsider, un diario: Finale senza spoiler

Un gran finale senza fuochi d’artificio

Ho la sensazione di essere un sopravvissuto, sono arrivato in fondo a the Outsider illeso. Lassù nel mio cranio si sono accumulate una decina di ore spese ad annoiarmi davanti a un pigro adattamento di un romanzo niente affatto all’altezza di altre pubblicazioni di Stephen King. L’ho spesso ripetuto fra le pagine di questo diario: the Outsider lo considero uno dei lavori minori del Re e la mia speranza era che Richard Price sulla HBO lo migliorasse.

Ora è ufficiale: col finale andato in onda il giorno 08/03 posso concedermi il lusso di esprimere un’opinione completa. Bocciata. Su dieci episodi solo i primi tre sono accettabili, con l’ottavo e il nono decenti e il decimo forse sul podio dei peggiori. Questo nonostante nel mezzo ci fossero principalmente blocchi di testo e immagini dal valore nullo, riempitivi per giustificare l’esistenza di dieci puntate per coprire il bimestre gennaio-febbraio.

La nostra Outsider intera era un riempitivo con la HBO armata fino ai denti per la stagione primaverile. Basta guardare al calendario delle uscite in programmazione:

  • 15 marzo ritorna Westworld con la terza stagione;
  • 16 marzo inizia the Plot Against America;
  • 16 marzo la seconda stagione de L’amica geniale debutta negli USA;
  • 12 aprile esordisce Run di Phoebe Waller-Bridge;
  • 1 maggio Crystal Moselle dirige Betty;
  • 10 maggio Nicole Kidman sarà in the Undoing.
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Alla trasposizione kinghiana insieme alla comedy fantascientifica Avenue 5 è stato dato il compito di seguire a due show su cui la rete via cavo aveva puntato moltissimo: His Dark Materials e Watchmen. Insomma the Outsider era fra i due fuochi con qualche speranza di ottenere un certo successo e come abbiamo visto nelle scorse pagine, non è andato poi così male. Avrà certamente aiutato l’origine: Stephen King è un nome che attira.

Il penultimo episodio Tigers and Bears ha persino sfiorato i due milioni di telespettatori e posso immaginare l’ultimo Must/Can’t abbia subito lo stesso fausto destino. Ciò non toglie quanto io sia deluso. Dei buoni presupposti c’erano: King ha scritto mondi connessi tra loro ed era possibile sfruttare le mille ramificazioni a disposizione, inoltre il tema centrale dell’irrazionale strisciante era un’opportunità da non lasciarsi sfuggire in questo modo.

Dov’è il re?

In tanti hanno applaudito the Outsider come un’ottima trasposizione del cliché kinghiano della comunità marcia, ma sento di dover dissentire: the Dome o Cose preziose, per citare i primi che mi vengono in mente, espongono la fogna umana nascosta negli angoli bui e nei segreti mai detti. In the Outsider la comunità si stringe attorno alle vittime e dà il massimo per combattere lo straniero, ovvero l’inspiegabile da dover accettare per sopravvivere.

Sia sulla carta che sullo schermo i conflitti si risolvono in fretta, il det. Ralph Anderson (Ben Mendelsohn) tenta di avvicinarsi al suo colpevole Terry Maitland (Jason Bateman) e unisce le sue forze agli avvocati difensori, in teoria suoi avversari. È una classica storia del bene contro il male, dove però le due fazioni sono ben distinte sin dalla partenza. Anche il procuratore Kenneth Hayes (Michael Esper) in fondo non è cattivo.

La individuo anche come una delle ragioni per cui the Outsider non mi è piaciuto – sconsigliatomi apertamente da Francesca alla sua uscita, se vi state chiedendo l’esperta kinghiana cosa ne pensasse – è perché non sembra un suo romanzo. Il “cattivo” Jack Hoskins (Marc Menchaca) e l’integrità di Anderson sono le coordinate dove lo ritrovo, nemmeno nella sua adorata Holly Gibney (Cynthia Erivo), personaggio derivativo e bidimensionale.

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Dalla carta al fotogramma

I difetti della carta sono nuovamente lì, sullo schermo. Richard Price, l’autore di The Night Of, adatta alla grande quanto non può rappresentare in immagini: l’assenza di Bill Hodges per motivi di copyright resta in Mr. Mercedes e diventa Andy Katcavage (Derek Cecil) il collegamento affettivo di Holly; il figlio degli Anderson muore di cancro anziché essere solo esiliato in un campo estivo, dando forza all’iper-razionalità di Ralph.

Sono modifiche intelligenti non sempre trattate a dovere. La situazione Derek è forse la migliore, così come ritengo Jeannie Anderson (Mare Winningham) il personaggio meglio sviluppato, ma l’ingresso di Andy è così casuale da giustificare la propria presenza solo come oggetto di scena. Della serie, Holly ha bisogno di correre un rischio e toccherà ad Andy rappresentare il pericolo, essendo lei estranea alla comunità di Cherokee.

Nessuno però è maltrattato come Paddy Considine (Claude Bolton), uno degli attori di punta del cast di the Outsider costretto per numerosi episodi ad apparire letteralmente per pochi secondi e nella stessa posizione. Avrà un ruolo decisivo solo nel finale e anche quello è tagliato con l’accetta, risolto con la stessa velocità con cui King decide di chiudere il suo romanzo. Cambiano solo le modalità e forse sono ancora più ridicole in tivvù.

Ed ecco dove secondo me crolla il già fragile castello di carte: dov’è il senso di una miniserie in dieci episodi se la conclusione è resa sbrigativa come sulla carta? Scrivere numerosi episodi riempitivi pur di trasmettere la domenica sera – peraltro un ritaglio di tempo di rilievo – senza curare lo stile oltre il necessario né osare come fece True Detective mi sembra un palese spreco di tempo e di risorse. Ottime risorse, tra l’altro.

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L’azione post-seriale

Questo nulla costante mi ha costretto a una riflessione, vecchia come il cinema. L’azione non è da considerarsi un elemento imprescindibile della narrazione. La serialità e parte del cinema si fondano sull’idea di un percorso che deve portare da un punto di partenza a un traguardo e proprio la scrittura televisiva ha difficoltà a sfuggire a questo schema proprio perché deve indurre gli spettatori a tornare la settimana successiva.

Almeno così era quando i tempi di trasmissione erano dilatati e difatti con lo streaming il ritmo si è disteso. Credo lo dimostri bene the Witcher col tempo mischiato come un mazzo di carte e dato in pasto al pubblico come blocco unico per poter essere compreso. Immaginate the Witcher costretto nella dipendenza dallo slot settimanale, credo al terzo o quarto episodio sarebbe stata abbandonata per manifesta incapacità di spiegarsi.

Lo stesso Mindhunter è un lento studio dei personaggi dove gli eventi di cui sono e si rendono protagonisti fanno solo da contorno all’evoluzione mentale dei titolari cacciatori. È un sistema di scrittura entrato negli ultimi vent’anni anche nelle dinamiche dei network e delle reti via cavo ed è infatti quella che oggi definiamo in termini sociologici la post-serialità. Ma the Outsider nel nuovo mondo si incastra senza ottenere un risultato cristiano.

Serie come True Detective e Mindhunter non le ho citate a caso, sono state tirate in ballo da numerosi spettatori di the Outsider come elementi di paragone e lo trovo un fatto assai divertente. Innanzitutto la prima è una delle vette della HBO, in secondo luogo puntano al personaggio prima che all’evento in sé ma in ogni caso agiscono in un ambiente definito da regole precise e subito individuabili. Ammetto che possa essere problematico.

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Nuotare in assenza di regole

Il focus di the Outsider è proprio l’assenza di quelle regole precise. È la distruzione delle certezze. Lo accetterei se non fosse che l’uomo nero è presentato già nelle prime due puntate. La figura misteriosa introdotta poco a poco da King nel romanzo la vedi lì in primo piano nel primo episodio Fish in a Barrel. Dunque quelle certezze frantumate per i protagonisti sono per lo spettatore invece chiarissime e crea un crescente dislivello tra noi e loro.

Come potrete dedurre dalle pagine di diario, al terzo episodio mi ritenevo soddisfatto dell’andamento. Perché la mano puoi ancora giocarla a queste condizioni, risulta però stancante la negazione dell’improbabile e la sua lenta, lentissima dimostrazione per la bellezza di sei appuntamenti domenicali. Gli stessi dialoghi ruotano sempre sul medesimo argomento, ancora, ancora e ancora. Diventa insostenibile, intollerabile.

Ed è un gran dispiacere osservare la staticità dello stile. Il regista principale della serie, Andrew Bernstein, introduce all’inizio l’idea di osservare i personaggi dall’esterno delle stanze, li inscrive delle linee architettoniche – sembra Ozu – e utilizza angolazioni bizzarre che partono dal basso o dall’alto dando l’impressione di osservare i personaggi con gli occhi della creatura misteriosa a cui non sanno di dover dare la caccia. Tale resta.

Anziché crescere di pari passo con la consapevolezza dei protagonisti oppure dello stesso villain si fossilizza sull’idea iniziale senza apportare cambiamenti sensibili. Almeno escludendo J.D. Dillard – futuro regista di Star Wars – con l’ottavo episodio Foxhead. Per riassumere, da un punto di vista stilistico e narrativo the Outsider è in stallo dalla partenza all’arrivo: è una lunga corsa priva di un festeggiamento al taglio del traguardo.

Di seguito la lista delle pagine del diario. Lì spoiler ce ne sono:

  • Pagina uno, Fish in a Barrel – dir. Jason Bateman.
  • Pagina due, Roanoke – dir. Jason Bateman.
  • Pagina tre, Dark Uncle – dir. Andrew Bernstein.
  • Pagina quattro, Que viene el Coco – dir. Andrew Bernstein.
  • Pagina cinque, Tear-Drinker – dir. Igor Martinovic.
  • Pagina sei, The One About the Yiddish Vampire – dir. Karyn Kusama.
  • Pagina sette, In the Pines, in the Pines – dir. Daina Reid.
  • Pagina otto, Foxhead – dir. J. D. Dillard.
  • Pagina nove, Tigers and Bears – dir. Charlotte Brändström.
  • Pagina dieci, Must/Can’t – dir. Andrew Bernstein.

Agli italiani toccherà aspettare il 16 marzo per la trasmissione degli ultimi due. Il prossimo diario invece attenderà la successiva serie tratta da Stephen King: toccherà aspettare e vedere chi sarà la prima se the Stand oppure La storia di Lisey. È sicuro però che ci vorranno mesi prima di poterle inserire nella nostra watch list.

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