Tutta la regalità di The Crown.
Che Netflix fosse il network favorito ai Golden Globe era chiaro sin dall’annuncio delle nomination, Stranger Things è stata forse la serie più chiacchierata e amata del 2016.
Sembrava però una possibilità lontana che l’altra loro candidata, The Crown, potesse portare a casa qualcosa, soprattutto con la concorrenza della HBO con Westworld e l’audace produzione di Game of Thrones, senza contare l’adorabile colata di miele rappresentata da This Is Us della NBC, l’unico altro canale a competere per la Miglior Serie Drammatica.
Oggi sappiamo come sono andate le cose e a sorpresa The Crown si è portata a casa il Golden Globe più ambito (Atlanta della FX ha invece vinto sul versante commedia) insieme a quello per Claire Foy, miglior attrice protagonista.
Meglio tardi che mai
Parlare di sorpresa è però errato, dovremmo invece sottolineare come molti di noi hanno sbagliato a far passare in relativo silenzio The Crown, disponibile su Netflix dal 4 novembre scorso e poco discussa fino a qualche tempo fa. Una volta vista è comprensibile come potesse essere la serie più meritevole delle cinque.
Lo diciamo da folli amanti di Stranger Things (il rap di Millie Bobby Brown è l’ultima ciliegina sulla torta, si possono amare di più quei ragazzini?) da spettatori ancora piacevolmente stupiti da molti aspetti di Westworld e affezionati alla famiglia Pearson di This Is Us.
The Crown è una serie favolosa e in sette ragioni cercheremo di convincere tutti voi che ancora non vi siete gettati nel bingewatching più estremo. Dateci retta, se siete aperti a ogni genere (se anglofili, non ne parliamo proprio) non potrete fare a meno che innamorarvi di The Crown.
Fuga da Downton Abbey
Il primo timore prima della visione è che The Crown potesse presentarsi come sostituto di Downton Abbey, acclamatissima serie britannica andata in onda per sei premiate stagioni.
Così per fortuna non è stato e la serie ideata e prodotta da Peter Morgan e dal regista Stephen Daldry ha evitato di presentarsi come discendente diretta dell’opera di Julian Fellowes, partendo innanzitutto con l’obiettivo di essere più realistica tagliando i ponti dal genere upstairs-downstairs, ovvero quelle rappresentazioni seriali dove vediamo la vita di servitù e aristocratici.
I primi sono presenti solo sullo sfondo, ad accompagnare la Regina Elisabetta II di Claire Foy sono solo familiari e alti funzionari di Buckingam Palace e del Parlamento. Gli irrealistici matrimoni tra autisti dissidenti e nobildonne, gruppi jazz statunitensi nelle stanze di gentiluomini, famiglie altolocate dotate di una gentilezza sovrannaturale, sono elementi lontani, una distanza grazie alla quale capiamo come The Crown si propone di essere una serie sì vicina al lato umano, ma prima di tutto il tentativo di offrire una visione realistica degli ambienti rappresentati.
Rupert Gregson-Williams
Conosciamo Harry autore di colonne sonore di alto livello come Z la formica e quasi tutta la filmografia di Tony e Ridley Scott dagli anni Novanta a oggi.
Adesso con un grande 2016 scopriamo anche suo fratello Rupert, sempre parte del mitico team di Hans Zimmer, prima relegato a comporre per gli innominabili film di Adam Sandler & Co.. Tra un The Legend of Tarzan e Hacksaw Ridge, Rupert Gregson-Williams emerge in televisione con la colonna sonora di The Crown: epica, variegata, degna di una sala cinematografica.
A tratti sembra voler restare in secondo piano, seguire l’azione dai pochi angoli bui di Buckingham Palace, ma poco alla volta sorprende, come il brano Duck Shoot del primo episodio. Emerge dalla nebbia con calma mentre Re Giorgio, ‘Bertie’ come Il discorso del Re ci ha insegnato a chiamarlo, spiega al principe Filippo i suoi futuri doveri da marito della Regina, fino a esplodere per dare al pilota di The Crown una conclusione forte, presagio di una serie che non sarà composta solo da giochi di palazzo. Dà inizio al dispiegarsi della storia sullo schermo.
Piccoli schermi crescono
Quale schermo? La domanda è implicita e la televisione – sia essa da streaming o dai normali canali – si comporta da anni come un bambino desideroso di crescere all’altezza del suo parente più stretto.
Ci è riuscita tante, tantissime volte con serie dal sapore cinematografico come Game of Thrones e Vikings, ma quest’anno si era rimpicciolita, Westworld e This Is Us sono loro malgrado rientrate nei vecchi ranghi. Netflix però non ci sta e ciò che aveva già raggiunto con Black Mirror lo replica in The Crown dove gli sguardi lontani prevalgono sui primi piani.
Daldry produce un serial che richiama ai grandi successi scritti da Peter Morgan o diretti da Tom Hooper, al cinema britannico sull’aristocrazia, sulle sue virtù e i suoi vizi, e lo fa senza compromessi.
Riesce nell’intento con la su citata grande colonna sonora, con le scenografie spettacolari di Martin Childs e la portata internazionale dell’impero di Sua Maestà. Ha un respiro ampio, uno sguardo vasto sui suoi personaggi, una regia impostata a ingrandire gli uomini inquadrandoli in immagini incise nella pietra o in enormi favolose cartoline del Regno Unito.
Il principe Smith
Mi son sempre divertito a leggere le liste delle gaffe del Principe Filippo, il marito della Regina Elisabetta II. Potrebbe essere persino essere uno dei motivi principali per cui ci ricordiamo che Sua Maestà non è una donna single o addirittura vedova – a quell’età sfido qualunque millennial a dimostrare di non averci pensato. Matt Smith, l’ex undicesimo Doctor Who, veste il personaggio con una facilità che ha dell’incredibile.
Jared “Bertie” Harris
È una cometa, una presenza che impegna complessivamente poche ore di girato riuscendo comunque nell’impresa di farle risplendere. Lui è Giorgio VI, l’ipersensibile figlio di Mary costretto a sostituire al trono il fratello abdicante e ribelle. Personaggio insicuro e tormentato, nella prova dell’attore britannico trabocca di orgoglio e reattività, nonostante la consapevolezza di un destino infausto che tende ogni fibra del suo corpo, dalla pelle del collo alla piega delle labbra. E gli occhi, soprattutto gli occhi: umidi e fieri, non si scordano facilmente.
Churchill su un mare di nebbia
Un personaggio controverso, lo statista europeo con la maiuscola, capace di attraversare le maglie della Storia e del tempo allo stesso modo in cui il viandante del celebre quadro fa di fronte al mare di nebbia. Nel quarto episodio di The Crown, Atto di Dio, John Lithgow è proprio così: una sagoma gobba circondata dal fumo che prova a ritrovare la legge morale dentro di sé guardando le stelle sul suo capo. Burbero, scortese, un continuo fremito di umanità tenuto stentatamente a bada da un cilindro. Davanti alla sua interpretazione dire chapeau non è solo un gioco di parole, perché viene naturale.
Sua Maestà, Peter Morgan
Prodotta, ideata e scritta da Peter Morgan: la regalità di The Crown la dobbiamo anche e prima di tutto a lui, un autore che già con The Queen (2006) e Frost/Nixon (2008) aveva mostrato il suo particolare talento nel raccontare i dietro le quinte del potere.
E che dire di Hereafter (2010) e Rush (2013) dove il materiale biografico si sposava alla perfezione con la potenza dell’intreccio e il fascino dell’intrigo? Accade allo stesso anche qui, fra i lustri corridoi e i lucidi specchi di Buckingham Palace, teatro glaciale della nascita di una nazione e di tutte le piccole, grandi tragedie che l’hanno resa possibile.
Francesca Fichera e Fausto Vernazzani
2 pensieri su “The Crown: Sette ragioni per una Regina”