Sconfitta la morte tocca sconfiggere se stessi in The Good Place.
Ogni giorno che passa sappiamo di essere più vicini alla morte e di dover aggiungere una nuova serie alla propria lista Da vedere. Capita il barista col suo consiglio, la conversazione spiata in autobus e il cartellone pubblicitario a eterno monito delle ventidue stagioni di quella famosissima serie che ti eri ripromesso di guardare.
Il naufragare in questo mare è tutt’altro che dolce, s’affoga nell’ansia del binge watching e riesce difficile tener traccia dei tanti temi a far da canovaccio da una piattaforma all’altra, ma ce n’è uno in particolare a cui chiedo di fare attenzione ed è dei più allegri possibile, entrato nel discorso con nonchalance al primo rigo: la morte.
La serialità lo fa certamente in ritardo rispetto ai media letterari – fumetto incluso, s’intende – e ha oggi decretato il decesso del corpo e la sopravvivenza della coscienza. Due facce della stessa medaglia e concorrenti su network diversi, Westworld di Jonathan Nolan e Altered Carbon di Laeta Kalogridis partono col funerale della morte stessa.
Sono insomma passati gli eoni predetti da Lovecraft e la morte è morta. Gli androidi si scoprono immortali e coscienti grazie alla memoria, sostituendo un corpo scaduto con uno fresco – a seconda della propria disponibilità economica – il futuro favorisce una vita senza fine e in Orphan Black la splendida è la coscienza a far la persona.
Che dire invece di Person of Interest con la sua lotta tra divinità per cui il corpo altro non è che un mezzo di comunicazione temporaneo, un oggetto da utilizzare nella quotidianità al fine di combattere una guerra undeground per il dominio del libero arbitrio. Poi in mezzo a loro, e tante chiacchiere mie dopo, c’è lei: The Good Place.
Niente paura, siete solo morti
Il piano mortale nemmeno lo frequentiamo durante il corso della prima stagione, siamo con Eleanor (Kristen Bell) in un luogo presentatole subito da Michael (Ted Danson), cicerone e architetto di questa fetta di aldilà, come la parte buona. L’unico problema è che Eleanor è solo omonima della donna che meritava di essere lì.
Marcia fin nel midollo, tamarra con la scorza e volgare senza alcun ritegno, Eleanor è un’usurpatrice in un paradiso disegnato su misura per la donna che lei non è, una fan dei clown e dell’architettura minimalista, un incubo fastidioso da mandar giù se Eleanor desidera evitare di scender giù nella cosiddetta parte cattiva.
Sarà malvolentieri aiutata dalla sua anima gemella Chidi (William Jackson Harper), un eterno indeciso e professore di filosofia morale, invidiosa della perfezionista, perfetta e accondiscendente Tahani (Jameela Jamil) e il suo compagno buddhista Jianyu (Manny Jacinto), con un voto di silenzio a cui tener fede anche in questa esistenza.
Cosa c’è dopo la morte?
La creatura di Michael Schur, già penna dietro l’enorme successo di Parks and Recreation, Brooklyn Nine-Nine e l’episodio Nosedive della terza stagione di Black Mirror, non è affatto la prima serie a rappresentare una vita dopo la morte. Lo fece già Dead Like Me coi mietitori di Seattle. Ne avranno presi di medici al Seattle Grace Hospital.
La differenza sta nell’abbracciare in toto il genere fantastico tagliando il filo che ancora legava altre serie alla terra e soprattutto dimostrare a pieno titolo come futuro e aldilà condividano in fin dei conti una stessa visione tragica dove il corpo assente protagonista inciampa negli innumerevoli difetti dell’immortalità, se così possiamo chiamarla.
In Westworld l’androide dipende dalla programmazione e in un certo senso lo stesso le cloni di Orphan Black, mentre in Altered Carbon da un sistema economico e politico che ha del feudale. Il Good Place di Schur ai corpi-entità bastano gli architetti e una morale stantia a tenerli insieme, proiettati in avanti verso chissà dove e per chissà quanto.
La morte in technicolor
Lontani anni luce dalle tinte cupe dell’aldilà o dai colori fintissimi sgargianti del melenso Al di là della vita con Robin Williams, le disavventure di Eleanor sono accese, corredo di una commedia dal twist fantastico già sul finale della prima stagione, in realtà ultimo di una lunga sfilza di capovolgimenti uno migliore dell’altro.
È un continuo prendersi gioco della morte che raggiunge dimensioni vulcaniche nei primi episodi della seconda stagione – disponibile solo la prima su Netflix – e sembra più che corretto nell’attuale panorama seriale dove l’addio a un personaggio avviene su base quotidiana così come il ritorno dall’abisso. Il trono di spade, penso a te.
Lo fa senza essere una parodia né dissacrante, non è The Orville per intenderci, altra perla di cui un giorno parleremo, la commedia è genuina e l’autore Schur esprime una personalità forte con la sua scrittura evitando di cadere in richiami che possano rendere The Good Place un’opera derivativa o dipendente. I colori sono i suoi.
Cosa significa essere buoni?
Come può aiutare la filosofia a esserlo? Sfortunato Chidi a cui tocca un’aldilà in cui deve insegnare ai peggiori studenti possibili come affrontare problemi morali di ogni tipo, scuola di bontà su cui piove cinismo ininterrottamente, ma con rispetto e senza l’aforistica (non) qualità di altri prodotti dove si cita un nome e via, tutti a mare.
Chidi è costretto ad andare a fondo, a contrapporsi senza saperlo alla cultura del consumo rapido e multiforme millennial dell’evoluta Clippy del pacchetto Office col nome Janet (D’Arcy Carden) personaggio capolavoro presente nel posto buono per dare ai protagonisti tutto ciò che vogliono sapere e di cui hanno bisogno.
Schur con Janet si supera e racconta della morte persino attraverso una creatura che in fin dei conti non è mai stata del tutto viva, rompendo lo schema biologico e soffermandosi dunque solo ed esclusivamente sull’esistenza. Tant’è che il fiume di problemi morali, il dilemma della bontà, investe anche lei nel corso della serie.
Benvenuti nel posto buono
Alla fine sono sicuro di aver commesso un peccato per colpa del quale anche io potrei non meritare di arrivare nel posto buono: vi ho appesantito la watch-list con una nuova serie da vedere – a meno che non abbiate già dato – e dunque accresciuto la vostra ansia. Niente ma e nessun però, l’ho fatto e ne sono colpevole, lo ammetto.
Il problema che mi pongo è come sarebbe giudicata da architetti, angeli e demoni – no, niente Dan Brown, vi prego – la mia eventuale decisione di non suggerirvi una delle comedy senza risate registrate migliori in circolazione? Con episodi di soli 20 minuti ciasciuno? Ecco, lo scoprirò solo finita questa fase della mia esistenza.
Intanto aspetto la terza stagione!
p.s. agli Emmy 2018 per sfortuna solo due nomination, una per Ted Danson e l’altra per Maya Rudolph, guest star nella seconda stagione!
Ce l’ho in lista!
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Ho visto le prime tre puntate molto carina codesta serie. Non ai livelli altissimi di Crazy Ex Girlfriend ma molto piacevole
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Facci sapere quando l’avrai spuntata :D
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Io ho visto entrambe le stagioni e ne sono rimasta molto colpita. È davvero fantastica, non c’è che dire. A te, invece, complimenti per l’articolo e grazie per gli spunti di riflessione! 😊
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Grazie, troppo buona :D io ora sono in trepidante attesa della terza stagione, negli USA è già uscita, ma non mi pare il Netflix nostrano l’abbia ancora pubblicata. Dopo quel finale sono curiosissimo di sapere dove andranno a parare!
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