Le urla del silenzio assordano il cinema francese.
Se domani Roman Polanski dovesse morire, sarebbe semplice discutere dei suoi vizi e delle sue virtù. Onestamente, sappiamo sarebbe una tempesta di elogi per uno dei migliori registi viventi. Viventi, appunto. Ed è un grave problema per lui esistere nell’epoca del Me Too: sono trascorsi 43 anni dallo stupro di Samantha Geimer per cui fuggì dagli Stati Uniti per trovare rifugio ne la Mecca del cinema: la République française.
Fosse sepolto verrebbe nell’immediato contestualizzato nell’epoca storica di sua pertinenza e dunque assolto da ogni peccato, purtroppo per lui nel 2017 Ronan Farrow pubblicò sul New Yorker il famigerato articolo che fece esplodere il movimento su scala internazionale. Con pochissime se non inesistenti conseguenze al di fuori del nuovo mondo. La Francia non ha battuto ciglio e Polanski, investito di nuove accuse, è rimasto attivo e indisturbato.
Sapere è potere
Il 2017 aprì un dilemma etico: abbiamo una responsabilità? Io credo di sì e aver concluso ieri la terza stagione di the Good Place – fresca fresca su Netflix dal 28/02 – mi ha ricordato quanto è macchinoso essere giusti oggi: puoi comprare lo stesso mazzo di rose acquistato da tuo nonno prima di te e commettere un peccato laddove per il tuo parente non lo sarebbe stato. Perché oggi conosciamo le conseguenze delle nostre azioni.
La serie di Michael Schur gioca sull’affascinante complessità della vita contemporanea, ma dietro lo scherzo esiste la verità: le piccole azioni sappiamo avere enormi ripercussioni sul mondo circostante. Quella pubblicazione sul New Yorker non svelò alcunché di nuovo, però chiamò il mondo ad affrontare le proprie responsabilità: tu che sai e non reagisci, sei complice. L’aver consapevolmente ingaggiato un molestatore ti rende responsabile.

Quale accendiamo?
Logico come ci siano diversi gradi, ma per piacere, voglio continuare a commettere il presunto errore secondo cui il mondo non è composto da una massa di imbecilli: esiste una scala di grigi tra il nero e il bianco e non dovrebbe sempre esserci il bisogno di sottolinearlo. Capitan Ovvio è nostro nemico. Torno dunque all’inizio: siamo responsabili di quanto il celeberrimo Roman Polanski ha commesso in passato quando guardiamo un suo film?
Oppure, ancora: va divisa la sua filmografia tra pre-stupro e post-stupro oppure pre-MeToo e post-MeToo? Possiamo guardare i primi e non i secondi senza sentirci in colpa? Ecco le domande a cui vorremmo una risposta, peccato siano le stesse su cui vorremmo scaricare la responsabilità di agire contro gli errori di un sistema. Io stesso con J’accuse mi sono sentito a caccia di una via di fuga per poterlo guardare, perché so sarà bellissimo.
Ho fallito, miseramente, per quanto mi sia impegnato non l’ho trovata e J’accuse è ancora nell’eterna watch list e non per questo mi sento una persona migliore. Niente affatto. Questo arrovellamento però una conclusione me l’ha data ed è la richiesta di giustizia, Roman Polanski non ha mai pagato per il suo reato – parlo al singolare perché gli altri sono ancora presunti – e l’industria cinematografica ora dovrebbe guardarsi allo specchio.
Lungi da me chiedere una caccia alle streghe, negli USA è stata fin troppo disordinata, ma quando hai un caso eclatante il minimo che tu possa fare è chiudere il rubinetto alla carriera. Grandiosa, rimarrà nella storia e comunque niente pena per quel reato. Lo giudico uno scenario vincente per un uomo sentitosi talmente in pericolo dall’essersi rifiutato di andare ai César per paura di essere linciato. Qualcosa non torna, no.
J’accuse²
Il 28 febbraio la 45ª cerimonia dei César du cinema è stata protagonista di un assedio, fisicamente all’esterno con un centinaio di femministe in protesta, e dall’interno con le dimissioni della commissione dell’Accademia francese. Era ingiusta la massiva presenza di Polanski tra i candidati e intollerabile per una società ora attenta alle proprie responsabilità in un certo ambito. Attenta, non reattiva, indignata come piace a noi.
Perché l’indignazione è il mood in vendita solo nelle migliori edicole, lo stato mentale più ambito del momento. Si narra un tempo fosse il trampolino di lancio per una lotta al cambiamento e invece nel nostro caso si arena nella separazione tra la persona e l’artista. Se posso permettermi, aggiungo anche un altro elemento: il cinema resta l’arte della fabbrica e un uomo solo non deve permettere la distruzione del lavoro di molti.
Mi riferisco agli operai del cinema, certo non a grandi attori che potrebbero permettersi di scegliere. Immagino un grip o il gaffer non possano a cuor leggero tirarsi indietro da una produzione perché il regista è Polanski. È giusto nei loro confronti boicottare un film? È corretto verso i commessi di McDonald’s il rifiuto di entrare nei fast food? Ecco allora che la verità assoluta e una risposta chiara e universale non la troveremo mai.
Resta la personale e dunque dopo la vittoria del César alla miglior regia di Polanski ho capito questo: se mi pongo tanto una domanda a causa di uno specifico disagio, la decisione migliore è rimuoverlo. Alzarsi dalla sala e andarsene come Adele Haenel ha fatto durante la cerimonia insieme al resto del gruppo di Ritratto di una giovane in fiamme: se adesso non tollero l’idea della libertà di Polanski allora è giusto che io smetta di seguirlo.
D’altronde se nel dibattere sulla famigerata separazione continuo nel frattempo a consumare un certo prodotto, è inutile illudermi di aver contribuito a dipanare una questione. Sto continuando ad alimentare una delle parti su cui ragiono ed è quella dove risiedono i potenziali contro che mi hanno in primis spinto a riflettere sul da farsi. J’accuse sarà il primo film di una carriera che per me probabilmente non continuerà, finisce qui.
