Shining (Stanley Kubrick, 1980)

Nel labirinto di Shining.

Era il lontano 1980, tre anni prima Stephen King aveva dato vita al mito del soprannaturale per eccellenza, consegnando alle librerie d’America la storia di Jack Torrance e della sua progressiva caduta negli inferi, fra le mura e le presenze di una cupa struttura alberghiera.

Dove lo scrittore del Maine aveva trivellato senza pietà in direzione del nucleo del mistero e con un sapiente gioco di allegorie e metafore, il genio incomparabile di Stanley Kubrick sceglieva invece di sciogliere lentamente la materia dell’intreccio, senza svelare nulla, al fine innescare la progressiva deflagrazione di un incantesimo fatto di tasselli e labirinti onirici.

Oltre il tempo

Shining è, per dirla con Massimo Moscati, “un sistema che resta intatto di fronte al tempo”. Qualsiasi definizione, qualsiasi etichetta, finirebbe con l’ingabbiarne l’essenza.

Traendo spunto da una trama calda – e, a suo dire, funzionale al linguaggio cinematografico – Kubrick ha eretto la sua gelida cattedrale in pellicola, parte integrante di una “metafisica registica” senza paragoni.

Con rigore e metodo scientifici ha costruito l’enigma perfetto, fitta maglia di dualismi relazionali (fra i personaggi) psicologici (nei personaggi) ma, soprattutto, concettuali.

In Shining Spazio e Tempo, aiutati dal carrello e dalla steady-cam, si combattono l’un l’altro senza sosta fino ad assumere quell’inquietante apparenza di frammentazione – rafforzata dalla suddivisione in sezioni temporali – tipica del sogno (e dell’incubo) e sintomo, invero, di una sostanziale ciclicità.

Come spiega perfettamente Enrico Ghezzi:

In ogni immagine del film si incrociano (come appunto avviene fisicamente in ogni punto dello spazio) mille infinite immagini-puzzle. Ovvero, il puzzle viene dichiarato impossibile poiché esistono il tempo e il cinema – che apre nello spazio la possibilità di innumerevoli sguardi.

Shining irride apertamente alla possibilità di comporre e chiudere il puzzle: i buchi restano sempre aperti, assolutamente non curanti della precisione diegetica con cui si svolge il modesto libro di Stephen King da cui è tratto il soggetto.

Kubrick sembra infine suggerire che la ricerca del senso è vana; […] se si dà un senso in Shining, è solo nella figura stessa dell’enigma, e nel modo in cui si pone.

Miti in rotta di collisione

È così che da una “collisione di miti”, da due visioni diametralmente opposte, passa attraverso lo schermo l’enormità dell’indefinito e dell’indefinibile, anche grazie a quel fortunato pretesto, suggerimento, input, offerto dalla forza della narrazione kinghiana di partenza.

Il ritratto di una famiglia americana il cui contesto di appartenenza diviene, in assenza, ancor più presente e asfissiante, funge da tramite, cornice perfetta, per un affresco più ampio, dalle onnicomprensive geometrie.

Ciò che emerge è, sempre seguendo Ghezzi, un discorso di illimitata apertura all’interpretazione. Dalle solide intelaiature dell’Overlook Hotel kubrickiano partono infinite rette: di lettura, di sguardo, di pensiero.

L’inequivocabile parabola sulla banalità del Male secondo King diventa, fra le mani dell’intramontabile cineasta statunitense, un’impresa folle e meravigliosa, impossibile: quella di rappresentare un labirinto mediante il labirinto stesso, dove anche i corridoi (all’apparenza) ciechi nascondono tutto o niente.

Come dire: la bellezza è nell’occhio di chi guarda.

p.s.: e poi quel Jack Nicholson non si dimentica.

Francesca Fichera

Voto: 4.5/5

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