L’affido è un universo di orrori nascosti
Quello: così si rivolge Julien (Thomas Gioria) a suo padre Antoine (Denis Ménochet). Non è un genitore come gli altri. Non posso mai giocare davanti a casa o in giardino per paura che arrivi quello. Quello e sua madre Myriam sono separati da un anno. Con mamma ora abito dai nonni. Nonno quando sente quello arrivare si sente male.
Nero su bianco: sono le parole di Julien che il giudice assegnato al caso legge con tono incolore davanti agli avvocati dei coniugi Besson per decidere se concedere l’affido congiunto. Nelle parole del ragazzino di undici anni galleggiano in superficie l’orrore e l’angoscia verso un uomo aggressivo e irrazionale che maltratta la madre e che i figli non vogliono vedere. Il giudice però decide per l’affido congiunto. E l’ossessione di Antoine per l’ex moglie sfocia in qualcosa di più profondo.
Nei sotterranei della violenza
In L’affido – Una storia di violenza (Jusqu’à la garde) Julien (Thomas Gloria) parla a stento e non sorride mai, neppure con gli occhi. È un bambino imprigionato nello sguardo serio di un adulto, un bambino cresciuto troppo in fretta che più di ogni altra cosa desidera proteggere la madre dalle violenze fisiche e psicologiche del padre.
Leone d’argento per la migliore regia e il Leone del Futuro come migliore opera prima alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, l’opera prima di Xavier Legrand descrive con realismo e precisione chirurgica la violenza sotterranea e le paure striscianti sperimentate ogni giorno da migliaia di donne, in ogni parte del globo: Myriam rappresenta se stessa e tutte loro.
Il corpo minuto di Léa Drucker tenta di opporsi al controllo ossessivo dell’uomo un tempo amato. E che poco per volta precipita in un baratro nero e profondo, annunciato dai rumori della quotidianità: i passi sulle scale, il trillo di un telefonino, una portiera che sbatte.
Omaggio alla luccicanza
Un crescendo di tensione che, come nei più inquietanti film di Haneke, Legrand gestisce con mestiere mostrandoci una storia simile a tante, di quelle che riempiono le cronache locali e gli approfondimenti dei telegiornali.
Ispirandosi al suo corto Avant que de tout perdre (2013) in cui descriveva un conflitto coniugale affidando sempre a Léa Drucker il ruolo della protagonista, il regista dà vita a un thriller sociale in cui, almeno all’inizio, il viso contratto e angosciato di Julien e il suo rifiuto categorico nei confronti del padre non ci aiutano a capire se Antoine sia, oltre che un marito, anche un genitore violento.
È fin troppo semplice provare empatia per il piccolo Julien. Con il trascorrere dei minuti l’angoscia cresce, la persecuzione di Antoine si fa più sottile e anche lo spettatore inizia a percepirla attraverso gli occhi del figlio. In una scena del film Julien scappa e noi vorremmo potere accoglierlo e proteggerlo.
Vorremmo fargli da scudo, o perlomeno donargli un po’ del sano distacco della sorella maggiore, Joséphine, o della resilienza di Myriam, che neanche per un minuto appare ai nostri occhi come una vittima; neppure nell’ultima parte del film, ispirata (per ammissione dello stesso regista) a Shining.
Un’opera prima che lascia il segno
Del film di Kubrick torna quella follia cieca nello sguardo trasfigurato del carnefice, un uomo che ritiene intollerabile non essere più il perno della famiglia, non avere più il controllo della sua donna e dei suoi figli, che piagnucola come un bambino incapace di gestire la rabbia.
Ma più dell’epilogo davanti a una comune vasca da bagno a lasciare il segno è tutta la prima parte di L’affido con la quale Legrand riesce a instillare il dubbio, mostrando le ambiguità dei protagonisti, senza mai schierarsi: Myriam potrebbe vedere persecuzioni e minacce dove non ce sono e Antoine, chiedendo di frequentare Julien, forse sta solo rivendicando il suo diritto di padre separato.
Una introduzione agli eventi lucida, nella sua essenzialità, che viene meno nei minuti finali ma che tuttavia non vanifica il valore di una intensa e inquietante opera prima.
Francesca Paciulli
Voto: 3.5/5