BFI58: Tokyo Tribe (Sion Sono, 2014)

Tokyo Tribe: è morto il cinema, evviva il cinema.

Con Cold Fish e una regia più equilibrata Sion Sono sembrava fosse sulla via di un nuovo periodo della sua carriera, Guilty of Romance poteva benissimo essere un momento nostalgico prima di intraprendere ufficialmente un futuro cinematografico meno grafico dei suoi standard (Strange Circus, Exte).

Himizu e The Land of Hope in qualche modo hanno confermato questo trend e sarà tanta calma ad averlo spinto a riprendere gli eccessi del passato con l’esilarante Why Don’t You Play in Hell? e l’ultimo: il musical hip-hop futuristico Tokyo Tribe.

Tutto ebbe inizio con un fumetto

La sua provenienza è il manga di Santa Inoue, Tokyo Tribe2, pubblicato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta fino ai Duemila inoltrati, un’opera cult a metà tra Crows Zero di Takashi Miike e l’immensità di film d’arti marziali di Bruce Lee e successori, misti a un abbondare di coreografie da Step Up.

Tokyo Tribe è un pentolone di omaggi, di schiaffi alle false citazioni (l’abito giallo è di Bruce Lee, non Kill Bill!) e sboccata ironia su guerra, pace, amore, sesso, cannibalismo, violenza e chi più ne ha più ne metta. Tokyo Tribe è tutto e niente.

Giochi d’autore

Non è la teoria del no reason di Rubber (il geniale film di Quentin Dupieux) ma un giocattolone d’autore  perché ormai possiamo anche essere tranquilli nel scegliere questa definizione per il regista giapponese – dove varie tribù di una Tokyo intrisa di anarchia controllano diversi territori della città e si scontrano tra loro in eterne lotte senza mai arrivare a una risoluzione.

La battaglia del giorno la introduce Show/Shota Sametani, voce narrante in uno dei tanti piani sequenza traballanti, insicuri, dove il tempo può tornare indietro senza tagli di montaggio: Mera/Ryohei Suzuki del brutale clan Bukuro vuol far guerra a Kai/Young Dais del gentile clan di Musashino.

La ragione è misteriosa: una sola volta in vita loro si sono incontrati in una sauna e nemmeno si sono rivolti la parola. Chiariamo, Sono non ha intenzione di tener nascosto il motivo della guerra tra Mera, col beneplacito di suo padre Buppa/Riki Takeuchi, un cannibale sessuomane disgustoso e un ecclesiasta circondato da sexy ballerine, e Kai e tutti gli altri clan. La ragione salirà a galla negli ultimi minuti e tutto sarà al suo posto.

La parola allo spettatore

Ma se la scoperta sia davvero importante lo decide lo spettatore, Tokyo Tribe col suo hip-hop asfissiante, le minacce di stupro e l’assassinio dei rappresentanti del rispettabile Libero Partito Demagogico è un’esplosione di spiritosa e dubbia misoginia, macismo e cattiva anti-politica.

Uomini e donne sono rappresentati con lo stereotipo settato ai massimi livelli e se all’inizio riesce solo a disturbare verso il finale diventa una voce inascoltata che occupa il sottofondo del beat-boxing di Kesha/Shoko Nakagawa, la decima (?) figlia del terribile Buppa di Buppaland.

A Tokyo Tribe non manca nulla di quanto un film del genere può promettere: c’è il gore, anche se piuttosto scadente e mai realmente in cima alla lista, e ci sono le donne nude, le sensuali verginelle e i muscoli oliati a dovere.

Il suo non-scopo, la sua critica sparata al vento senza alcun cuore, ne fanno un’opera interessante più per la sua presa di posizione contro il cinema stesso che a favore di un qualunque ideale preso da un’ideologia a caso.

Tokyo Tribe va visto così com’è senza cercarvi messaggi, puro spettacolo cinematografico fine a se stesso e consapevole di esserlo al punto da negarsi la chance di esserlo. Il film più contorto della carriera di Sion Sono. Non vediamo l’ora di incontrarlo ancora una volta.

Fausto Vernazzani

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