Il doloroso sguardo di Carrie White.
È il film che ha consacrato Stephen King all’horror: Carrie, di un allora giovane ma già esperto Brian De Palma, è fin dalle sue origini destinato ad essere cult. Un cult doppio, sia perché passo decisivo della carriera del regista statunitense – nonché aprifila di una determinata tipologia di pellicole di genere – sia perché assoluta riconferma dell’enorme successo ottenuto dal romanzo omonimo, il primo di un’infinita serie.
È il primo nodo della fitta maglia di trasposizioni, rimandi e rimediazioni che unisce l’opera dell’inarrestabile scrittore americano all’altrettanto vivo proliferare dell’industria cinematografica e dei suoi prodotti.
La storia del resto è materia trasversale a ogni linguaggio, potenziale fendente per qualsiasi stomaco: il suo stesso autore, demiurgo degli incubi più impensabili, ammette di non aver quasi mai esplorato un territorio così sgradevole nella sua carriera.
Un racconto dell’orrore che si discosta da H. P. Lovecraft e E. A. Poe – i grandi modelli di King – ma che non per questo fa meno paura. Anzi, è proprio la sua accesa verosimiglianza a renderlo terribile e temibile.
“I mostri sono veri”
Perché con Carrie si fa capolino nel lato ombroso dell’adolescenza, per la precisione fra gli angoli bui del tipico vissuto adolescenziale di una “reietta” della provincia americana. Tutta casa e Chiesa (e madre oppressiva), maglioni larghi e calzerotti spessi, con le compagne di classe costantemente alle costole pronte a giocare i tiri peggiori e a dispensare gli insulti più offensivi.
E se nella risposta alla domanda “Cosa accadrebbe se lei si ribellasse a tutto questo?“, King mette molto della (forse inconsapevole) metafora insita nel discorso del fantastico, ricorrendo all’espediente della telecinesi; se in quella risposta c’è molta magia e poca concretezza, rimane un che di reale (e finanche di profetico) che rimanda non solo all’attualità di quell’America, ma anche e soprattutto a quella che abbraccia i nostri tempi.
De Palma Vs. King
De Palma, fedelissimo all’intreccio di partenza ed alla sua sostanza, si allontana dal fulcro per rimodellare l’insieme secondo il suo caratteristico canone estetico: sfrutta il tema del sangue, leitmotiv tanto del libro di King quanto della sua carriera registica; focalizza sulle ambientazioni e sulle relazioni che possano in qualche modo fare da tramite al suo insistito omaggio nei confronti di Alfred Hitchcock – in primis la celebre scena della doccia.
A seguire, il complicato e morboso rapporto fra la protagonista Carrie (INSUPERABILE Sissy Spacek) e la madre Margaret (Piper Laurie) in tutto e per tutto una nuova Signora Bates (cfr. Ciro Ascione).
Quello del regista di Omicidio a luci rosse è un lavoro di compattamento formale che finisce col generalizzare i contenuti, pur fissandone a lungo termine le configurazioni e trasformandoli in veri e propri tòpoi di genere – come il finale, che più horror, per giunta consapevole di esserlo, davvero non ce n’è.
D’altronde è solo e soltanto nel suo genere che il film Carrie rappresenta l’eccellenza, andando a occupare il ruolo di capostipite (in senso stretto e lato) del filone che ha creato. Tutti i suoi successori si trovano davanti un bel peso con cui confrontarsi.
Francesca Fichera
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