Il sangue dei vinti scorre nell’Australia di Jennfier Kent
Parafrasando Blackbird dei Beatles ci ritrovammo a camminare per le selve australiane del secondo film di mamma Babadook, Jennifer Kent. Niente outback e niente paesaggi mozzafiato mutilati dall’aspect ratio 1:37:1 che nulla toglie invece alla profondità delle foreste e alle notti, quando col coltello al cuore saremo rapiti dalla bellissima voce della titolare the Nightingale.
Se cerchiamo del sovrannaturale in memoria del Babadook è proprio il canto di Aisling Franciosi, la ventenne irlandese Claire di primo Ottocento schiava del britannico luogotenente Hawkins di Sam Claflin. Proprietà del soldato come ogni uomo e donna d’Irlanda sfortunato abbastanza dall’essere stato fatto prigioniero e trasferito nell’ancora selvaggia e nera Australia.
Lì speranze di riscatto non esistono. L’isola di smeraldo crede di poter scegliere solo tra i boschi degli aborigeni infuriati con l’uomo bianco e il pugno e lo stupro imposto dagli inglesi, è solo un moto di giustizia e vendetta a scatenare la rabbia di una madre come Claire: inseguire gli uomini che le hanno sterminato la famiglia e la dignità davanti agli occhi, per ricambiare il favore.

Il pianto del merlo
Il peso storico del sangue irlandese versato dai loro vicini incontra solo ora il genocidio negli occhi di Baykali Ganambarr e del suo Billy: ultimo della sua famiglia costretto a vivere malvolentieri come occasionale guida per gli inglesi in cerca di un passaggio attraverso i boschi. Un’oppressione conosce l’altra e la sconfitta si mostra sempre più profonda con le scatole cinesi della Kent.
Cantato il Blackbird dei beatles e totem di Billy, custode del canto aborigeno del merlo, prosegue la canzone pop con la strofa Take these broken wings and learn to fly ma la sceneggiatura di Jennifer Kent non provede un rape-and-revenge qualsiasi. Le ali spezzate non possono essere guarite e l’unico canto da recitare è la lezione della morte: the Nightingale deve imparare a morire.

In fondo al barile e senza possibilità di uscita Claire e Billy possono solo continuare a specchiarsi in una pozza d’acqua sporca e subire una cura Ludovico Van con le immagini dello sterminio. Sono gli incubi di lei con gli amati defunti e i walking dead dalla pelle scura incrociati per strada da Billy, se non appesi per il collo lungo il tragitto anonimo e senza via di scampo.
Empatia, nemica mia
Vicina a loro è Jennifer Kent sul set con un piccolo monitor a mano per seguire le riprese, con per le mani nuovamente una storia umana e senza esagerazioni: le pecche e le ferite di un uomo e una donna sottolineano la vicinanza dell’immaginario storico rappresentato con la realtà dei fatti, facendone un tutt’uno così com’è sempre dovuto essere. L’immaginario è la realtà.
È infatti ottima la scelta di scartare l’idea di una colonna sonora, di una fotografia poetica che non raccolga il sangue rappresso dal viso di Aislang Franciosi e di una regia sentimentale che rispetti i canoni di un genere o dell’altro. Jennifer Kent poteva scrivere e dirigere un polpettone da Oscar cambiando di poco il tono, ma ha scelto il suo film invece del successo garantito.
Dubito sia la violenza subìta dalle donne in scena il vero motivo per cui ai tempi di Venezia molti storsero il naso. È l’assenza di ogni compromesso col pubblico, perché tanta sofferenza assai meno digeribile è stata proiettata sugli schermi salvata dalla sensazionalizzazione. Jennifer Kent non vuole aggiungere nemmeno effetti sonori ai pugni sferrati da Claflin.
Il contatto empatico è garantito e nessuno si sente a suo agio con certe sensazioni. Ecco perché immagino in tanti si siano levati contro Jennifer Kent, hanno combattuto la storia proiettata sullo schermo anziché accoglierne il disagio. È doloroso, sì, ma la storia (e la vita) non si fonda sulle canzoncine di Memole e the Nightingale vuole ricordarcelo con umana compassione.
Fausto Vernazzani
Voto: 5/5
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