The Babadook, l’uomo in nero dei 2000
The Babadook avrebbe benissimo potuto scriverlo Stephen King. Che infatti non ha perso tempo a consigliarlo su Twitter (del resto sua è una storia per molti versi simile, The Boogeyman, dalla raccolta A volte ri
Perché anche qui si parla di uomo nero, di mostri sotto il letto e dei bambini che li vedono e li temono. Uno con il nome di Samuel (e il volto di Noah Wiseman) figlio seienne della bionda Amelia (Essie Davis), giovane vedova e madre single.
Due cuori soli
Prima degli spettri nell’armadio ad apparire sono due fantasmi terribilmente solidi: la solitudine e il dolore. Sam, cresciuto senza padre e con una mamma che non cela di sentirne la mancanza, è un bambino difficile: dorme poco e male, svegliato di continuo dagli incubi; costruisce armi rudimentali per difendersi dalle presenze in agguato nel buio, spesso finendo col ferire se stesso e i suoi coetanei; è isterico e alterna momenti di insistente attaccamento all’ostilità più ostinata, al punto da essere isolato a scuola e dai suoi stessi parenti.
Amelia non è messa meglio: infermiera in un ospizio, ripete azioni e pensieri senza posa fino a svuotarsi. Anche il suo sonno è disturbato, tanto dal figlio quanto dal desiderio di avere di nuovo qualcuno accanto. Così, nelle tenebre concrete di una mente piegata, fa pian piano il suo ingresso Mr. Babadook. Un libro, una storia, una realtà insopportabile.
Vedere il dolore
La regista Jennifer Kent riesce a dimostrare l’importanza del modus su e per il narrare tendendo il filo della tensione attraverso l’articolazione, più che della trama, dello sguardo.
In The Babadook la visione è tutto, è il senso di fondo da cui nasce la struttura stessa del racconto: Amelia e Samuel che sfogliano insieme il misterioso volume di Mr. Babadook cedendo il passo all’inquietudine; Amelia e Samuel che, lasciando aperte le ante delle loro menti stanche e sole fanno sì che vi si intrufoli il lato malvagio dell’immaginazione; e che quest’ultimo diventi vero.
La macchina da presa non dà tregua a ciò che riprende come a coloro ai quali lo mostra: gli occhi degli spettatori sono un tutt’uno con quelli della Kent, di Amelia, del mostro. Saltellano dalle soggettive ai primi piani, passando per i dettagli, senza una singola sbavatura.
Intravedere la paura
Tanto del climax narrativo in sé si occupa il buon gioco fra script (sempre della Kent) e art design (Alex Holmes) che fa di The Babadook un percorso disseminato di graduali indizi visuali -Mr. Babadook che non compare mai del tutto se non nella penombra o in particolari fuori fuoco, come un cappotto scuro appeso agli appendiabiti – e di brividi.
In un modo diverso – e decisamente migliore – rispetto a Monster, cortometraggio scritto e diretto dalla Kent nel 2005 di cui The Babadook rappresenta la versione lunga, una nuova e più discorsiva declinazione del cliché dell’haunted house e della famiglia presa di mira nella sua parte più debole e infantile.
Succede poi il che il finale trova una strada tutta propria per unire il male con il bene, l’orrore con la speranza, in una metafora splendidamente vivida che merita di girare il mondo dal Sundance in avanti (come e già sta facendo) e il tempo, i tempi, la storia del cinema tutta.
Francesca Fichera
Voto: 5/5
AnCora non ho capito se questo film esce, è uscito, uscirà…
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In realtà ha avuto solo distribuzione festivaliera (in Italia al Torino Film Festival), per ora ancora niente per le sale (almeno a quanto so)!
– Fran
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