Gomorra la serie

Gomorra – La serie S1

Il giro del mondo di Gomorra.

Italia e serie TV: finalmente si può parlare di un trionfale ritorno sul mercato. Grazie a Gomorra – La serie, trasposizione televisiva – dopo quella cinematografica di Matteo Garrone – del best-seller di Roberto Saviano, nata da un concept dello stesso scrittore.

Una megaproduzione Sky, Fandango e Cattleya, con la collaborazione di BetaFilm e La7, la cui sfida consiste nel trasformare in fiction la cronaca e la storia racchiuse fra le pagine del libro di Saviano nonché tracciate sopra e sotto il suolo della straordinaria metropoli napoletana.

Nell’impresa la serialità aiuta molto: proprio perché stratificati nel tempo, i significati qui restituiti sono solidi, complessi, mai univoci. La retorica, probabile se non necessaria trappola cui può condurre il mezzo cinematografico (vedi Garrone) diventa uno spettro che s’allontana.

Dalli allo stereotipo

Ma c’è comunque chi urla allo stereotipo, chi all’ennesima messa in moto della macchina del fango contro Napoli e il meridione. Poco dopo la trasmissione dei primi episodi, per le strade del centro del capoluogo campano campeggiano ovunque manifesti di protesta. “Non è questa la vera Napoli”, fra gli slogan.

Su Twitter e altri social, a breve distanza, si genera la stessa nube mediatica, gli spettatori si dividono tra coloro i quali rifiutano in toto la serie (al pari di quelli dei manifesti affissi in giro), quelli che disprezzano i contenuti (“sempre le stesse cose!”) ma non la forma, e quelli che invece vedono in Gomorra – la serie un prodotto in tutto e per tutto di qualità.

E se l’aspetto tecnico è effettivamente indiscutibile, per contro i pareri sulla “cattiva nomea” che Gomorra affibbierebbe a Napoli andrebbero misurati, per esempio, con la censura che colpì l’anime Sailor Moon a causa di chi sosteneva incitasse i bambini a sviluppare tendenze omosessuali, appellandosi a teorie quale quella delle ferite da video e simili. Fate un po’ voi.

La qualità (ri)paga

Resta il fatto che, grazie anche alla direzione artistica di Stefano Sollima, già noto per un altro prodotto televisivo di livello qual è Romanzo criminale, la serie di Gomorra raggiunge vette altissime, equiparabili a buon diritto a quelle di molte altre serie d’oltreoceano che sono riuscite a emozionarci durante l’ultimo decennio.

A spiccare dunque è prima di tutto il cast degli interpreti: bravi e anche belli, l’ “immortale” Ciro di Marzio di Marco D’Amore e il giovane boss Salvatore Conte di Marco Palvetti bucano letteralmente lo schermo.

Li raggiungono Maria Pia Calzone, donna Imma Savastano, moglie del capo dal trono ambitissimo Pietro Savastano e donna dallo sguardo profondo che pur non cede mai a inflessioni melodrammatiche; Fortunato Cerlino nei panni del Savastano senior, caricato e arrogante al punto giusto; e Salvatore Esposito in quelli di Gennaro detto Genny, il figlio e l’erede, appesantito e con l’espressione assente scavata dall’ingenuità (prima) e dalla crudeltà (poi).

Li circondano tanti altri validi attori, più o meno conosciuti ma sempre e assolutamente caratteristici (Alessio Gallo de L’intervallo, per citarne uno) i quali danno a Gomorra quel tocco di veracità e familiarità, soprattutto per gli abitanti di Napoli, che va al di là del semplice riconoscimento di luoghi, volti, modi di dire e di vivere di una parte, nascosta o meno, della città.

La scrittura dei corpi

Come in Lost o ancor più ne Il trono di spade i personaggi sono il vero punto di forza: all’interno (fra loro) come all’esterno (rispetto a noi) cambiano di continuo la maniera di manifestarsi, di mostrarsi, di sembrare e di essere.

La strategia di tensione narrativa qui messa in atto è affidata del tutto al tradimento continuo della fiducia; una tattica formale che riflette, e si riflette, anche sui contenuti della serie – come ricorda Genny in una significativa battuta dell’ultimo episodio – e il cui merito, oltre che al cast attoriale, va senz’ombra di dubbio agli autori della sceneggiatura: accanto a Saviano, Leonardo FasoliStefano BisesGiovanni Bianconi, Ludovica Rampoldi, Maddalena Ravagli e Filippo Gravino.

Grazie a loro si verifica il miracolo di un’empatia che non presuppone affetto, se non in forma distorta; proprio come accade in quel mondo portato in scena.

Nessuno è ciò che sembra e non c’è limite al peggio, due apparenti luoghi comuni, attraverso il filtro di Gomorra – La serie si trasformano in creature di spessore, collocate in un regno grigio e sotterraneo – fotografia maestosa di Paolo Carnera Michele d’Attanasio – i cui veri tesori non possono essere toccati né goduti.

Gli uomini che non ridono

C’è violenza in Gomorra, come ce n’è nella realtà cui s’ispira e che rappresenta parzialmente. Una violenza che può diventare insostenibile, specialmente quando ferisce a morte colpendo l’innocenza – ne è l’emblema la nona puntata, dov’è rivisitata la vicenda atroce di Gelsomina Verde.

Ma fra i pregi di questa serie non v’è soltanto il coraggio (perché ci vuole coraggio a guardare le cose brutte come ce ne vuole per guardare quelle buone) di uno sguardo disincantato.

Se si presta attenzione ai dettagli, non solo nell’ambito del linguaggio ma anche in quello di scenografie e costumi, sarà lampante una delle sorprese più inaspettate e stilisticamente valide di Gomorra: una particolarissima ironia di fondo, un vago senso del grottesco che va dall’enorme quadro raffigurante una tigre nella casa dei Savastano alla serenata del neomelodico che Genny dedica alla sua fiamma Noemi, con tanto di cuore rosso srotolato sulla pavimentazione del cortile del palazzo, fino ai crocefissi fluorescenti di Salvatore Conte, tutti simboli di una ricchezza posticcia che trova la morte nella sua stessa opulenza priva di compassione.

Francesca Fichera

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