Il capitale umano è realtà (e ce lo racconta Virzì)
A volte la bellezza non è negli arzigogoli e nelle decorazioni, ma in forme ben tornite e definite. Non nel barocchismo di parola, ma nel discorso diretto. Che non sempre è sinonimo di esplicito.
Forse per compensare il tanto spazio dato a film di cui si è guardato più il punto d’approdo che non quello di partenza è bene dare il giusto spazio a un’opera come Il capitale umano di Paolo Virzì, violentissimo affresco – ora che di affreschi si sente così il bisogno, tanto che se ne fanno in abbondanza – della società globale vista dall’Italia.
Perché a chi ha veramente guardato il film, la natura pretestuosa – per quanto colma di riferimenti oggettivamente riscontrabili – dell’ambientazione brianzola apparirà chiara come il sole. E anche un po’ più vicina a quel Virzì che ha costruito la quasi totalità della sua filmografia collocando ogni storia in precisi e ben caratterizzati spazi-tempi onde raccontare (e, spesso, denunciare) un certo scampolo di realtà.
Il capitale umano è un vero dramma, una tragedia composta con le frasi della contemporaneità (e con l’ispirazione data dal romanzo omonimo di Stephen Amidon); un racconto a scatole cinesi in cui la scrittura è struttura portante di un impianto registico che fa (ancora una volta) i conti con i grandi maestri del cinema italiano.
Dove non solo trova nuova vita il binomio Paolo Virzì-Francesco Bruni, finalmente libero da stereotipi pompati ma che pur non rinuncia agli schemi narrativi del passato; il merito se lo prende anche e giustamente Francesco Piccolo, riconfermandosi più bravo ad adattare libri piuttosto che a scriverli.
Del resto, Il capitale umano conserva molte similitudini rispetto all’articolazione di un romanzo: suddiviso in capitoli, ciascuno dei quali è tramite di un personaggio come di un punto di vista differente, possiede il pregio della gradualità, del progressivo svelamento di significati e connessioni. Un processo che coinvolge perfino i titoli di coda, tanto didascalici quanto devastanti.
“Avete scommesso sulla rovina di questo Paese, e avete vinto“:
è, sì, una frase ad effetto, ma l’unica in un film che fa uso esclusivo della realtà per lasciare il segno. Non c’è più, ne Il capitale umano, l’ingenuità ipostatizzata (ed irreale) dell’abitante di campagna catapultato fra le contraddizioni urbane (Caterina va in città), né l’impiegato isterico del call-center che si lascia andare a tragicomiche scenate (Tutta la vita davanti): ci sono personaggi qualsiasi, persone perfettamente verosimili che è possibile incontrare tutti i giorni – fatta eccezione per la scena della riunione fra addetti ai lavori per la riapertura del teatro comunale, godibilissimo ritorno al solito stile caricaturale.
Dal gelido imprenditore tutto agio e nessuna verità (bravissimo Fabrizio Gifuni) al suo figlio viziato, superficiale e anche un po’ imbecille, passando per la moglie ricca e annoiata (Valeria Bruni Tedeschi) e per il commerciante volgare e arrivista (il Dino di un azzeccato, seppure un po’ sopra le righe, Fabrizio Bentivoglio): non è questione di ottimismo o pessimismo, perché tutto questo esiste.
Come però – insiste a dirci Virzì, e meno male – esistono pure Serena (Matilde Gioli, radioso volto nuovo) e Luca (Giovanni Anzaldo), con la loro felicità fatta di piccole cose, di impeti e di sorrisi. Quella che secondo José Mujica sarebbe la ricchezza più grande, e proprio perché non v’è metro per quantificarla.
Francesca Fichera
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