Boots Riley lascia il rap per debuttare contro il capitalismo
Obama Elected President as Racial Barrier Falls titolò il New York Times giorni dopo la vittoria alle presidenziali del primo presidente afroamericano della storia statunitense. Il razzismo fu per qualche giorno metaforicamente sepolto, ma il tempo ha scritto un pezzo assai diverso e la verità dei fatti (la realtà è tutt’altro) raccontata dagli Stati Uniti è di una profonda divisione.
Le cronache hanno evidenziato scontri violenti e il cinema ha pescato le storie nascoste nel sangue schizzato sulle strade degli USA. Ryan Coogler documentò la morte in Fruitvale Station poi vennero Kathryn Bigelow col ritratto di Detroit e la Blumhouse Productions mostrò la vera faccia dell’America nella serie di The Purge e nella horror comedy Get Out.
I temi dell’anti-capitalismo e del razzismo inverso vennero a galla e nel 2018 si è aggiunto un altro titolo imprescindibile in questa storia del cinema afroamericano – dietro e davanti la macchina da presa – ovvero Sorry to Bother You del rapper di Chicago Boots Riley, un uomo che dal 1993 canta Kill My Landlord o di violenta ipocrisia in The Liberation of Lonzo Williams.
Non siamo liberi
Cassius “Cash” Green (Lakeith Stanfield, l’uomo che urlava il titolo del film di Jordan Peele) vive nel garage dello zio con Detroit (Tessa Thompson) e fin troppo poco cash in tasca. Avere un tetto costa anche in famiglia ed entra dunque a lavorare per un call center della WorryFree (diretta da Armie Hammer) dove dovrà vendere pura e semplice spazzatura, se non fosse che…
Che è nero. Le persone riconoscono il colore della pelle dalla voce e per loro è sinonimo di truffa, sfiducia è la prima reazione. Dunque l’unica soluzione è seguire il consiglio del collega interpretato da Danny Glover, usare la voce bianca nascosta nelle corde vocali di ognuno di noi. Pulita, graziosa, morbida, chi non si lascerebbe convincere da un ragazzo bianco sicuro di sé?
Cash smette di essere solo il suo nome e finalmente può godersi la vita sempre desiderata (?) mentre i colleghi rimasti fedeli a se stessi si uniscono in un sindacato con i The Left Eye, un gruppo contro la WorryFree (Steven Yuen e Jemaine Fowler in primis) oggi in crescita grazie a un piano antipovertà: firma un contratto a vita e non dovrai pensare più a nulla.

Non si uccidono così anche i cavalli?
È satira graffiante senza mezzi termini Sorry to Bother You e non lascia libero nessuno dai propri artigli. Al di là della bravura di ogni singolo interprete a partire da Stanfield – anche se Yuen è il nome che più mi ha colpito – la vera star è Riley. All’interno di un percorso orizzontale inserisce frammenti a mo’ di sketch senza mai perdere di vista il succo del discorso.
La body art e gli happening come manifestazione politica e sacrificio, la commercializzazione della dignità e di un brand fatto di ossa e carne da vendere al potente bianco di turno.
Riley è spietato e ne ha abbastanza dell’ipocrisia statunitense. Sfonda pareti e soffitti per parlare dritto all’orecchio dello spettatore. Nessuno potrà scusarsi dicendo di non aver sentito.

Il mondo nei suoi occhi non ha mai smesso di produrre schiavi e disperazione, visibili in Sorry to Bother You in metafore dirette che trascinano il suo esordio alla regia sempre più in un magnifico vortice weird. È spiazzante e a tratti perde aderenza, ma è sufficiente stare al gioco per riuscire a scovare il parallelo vero a cui Boots Riley sta facendo riferimento.
Rivoluzione.
Ci sarebbe assai da scrivere e dire in merito, dal tema dell’afrofuturismo riemerso negli anni ’10 del nuovo millennio a un’analisi politica approfondita, ma significherebbe trattare nel dettaglio una trama – scritta da Riley e trasformata in concept album nel 2012 con la sua band The Coup – piena zeppa di colpi di scena che rovinare sarebbe un peccato indicibile.
Meglio seguire il messaggio: lottare contro il razzismo, lottare contro il capitalismo, lottare per un mondo equo e giusto governato dalla dignità del singolo individuo. Sorry to Bother You è un manifesto politico sexy armato di una macchina da presa intelligente, non solo presente.
Un primo piano è la prova scientifica della realtà frantumata dalla verità espressa da una voce estranea (David Cross è il bianco dentro Stanfield) e un’inquadratura dal basso è un occhio che giudica e tenta di capire cosa succede al di sopra del nostro piano. Riley segue Stanfield come se fosse la sua stessa coscienza a osservarlo, mentre gli altri vivono. Semplicemente vivono.
La regia è dunque ben al di sopra del semplice atto descrittivo ed è di fatto l’unico strumento attraverso cui alcuni coup de théâtre (coup è la parola da tenere a mente per l’intera durata di Sorry to Bother You) possono sperare di sfuggire al pericolo del ridicolo. Perché è sempre dietro l’angolo, così come lo è anche nella nostra… realtà? Verità? Esistenza? Giudicate voi.

Fausto Vernazzani
Voto: 4/5
2 pensieri su “Sorry to Bother You, un manifesto weird CONTRO”