Idris Elba - La Torre Nera - CineFatti

(In)fedeli al Re: quando adattare i libri di Stephen King diventa un problema

Tradire o non tradire? Non è questo il problema.

Chi ha guardato La Torre Nera al cinema potrà confermarlo: le ragioni alla base dell’ennesima croce rossa Sony su cui sparare a fine estate sono ben altre dalla fedeltà al testo originale. Il genere, tanto per cominciare. E un non so che di anacronistico.

Mesi e mesi di polemiche sull’etnia del protagonista – dal “ma non ha gli occhi azzurri” al “perché non hanno scelto il figlio di Eastwood?” – si sono prevedibilmente sgonfiati in un’orda di spettatori curiosi e in un’ora e mezza di young adult fuori stagione capace comunque di riempire le sale nel bel mezzo di agosto.

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Non provarci ancora, Nikolaj

Dopo Deadpool, dopo Logan, poco spazio è stato lasciato ai film coi ragazzi per ragazzi, eppure la Sony sembra averlo compreso poco o ignorato del tutto finendo col consegnarci la classica storiella del giovincello dai trascorsi drammatici diviso fra le personificazioni intonse e assolute del Bene e del Male.

Inutile negare che questo lo si deve anche all’eccessiva semplificazione della storia ma, per l’appunto, è uno dei tanti problemi che hanno afflitto il debole adattamento della mastodontica saga di Stephen King curato da Nikolaj Arcel Akiva Goldsman.

Il povero Idris Elba non c’entra e, anzi, si difende più che bene per quanto all’ombra del carisma dell’antagonista Matthew McConaughey. Perché – e sfido chiunque a dimostrare il contrario – se pure al suo posto ci fosse stato il Clint dei film di Leone il risultato sarebbe stato lo stesso: un mix affrettato di citazioni e dialoghi da B-movie anni Novanta che lascia il tempo che trova e intrattiene per il tempo di una porzione di pop corn.

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Un’altra storia

Diversissimo è il caso di Mr. Mercedes, secondo dei tre debutti kinghiani dell’estate dopo lo scempio di The Mist e poco prima dell’arrivo della Torre in sala. Una serie tv che comincia e continua (in)seguendo un passo alla volta il libro da cui è tratta, senza rinunciare a nomi, personaggi, situazioni, perfino esatte riproduzioni di singole scene come quella della strage iniziale alla fiera del lavoro.

Morbosa quanto la figura del serial killer protagonista (un Harry Treadaway un po’ sopra le righe) impone, ma dal ritmo e dalla struttura ancorati allo standard del più generalista dei crime televisivi. Per cui, a scapito dell’ottima prova di Brendan Gleeson e comprimari, la chimera del rivivere il libro sullo schermo resta tale e non soddisfa fino in fondo. Manca di guizzo, di cuore, di…

Coerenza?

La questione è tutta lì. Parte dall’imparagonabilità di fondo fra media e linguaggi differenti, che s’influenzano a vicenda entro i limiti – ma anche i vantaggi – dati dalla peculiarità dei loro codici. In parole semplici? Il libro non è meglio del film finché il film (o la serie) mantiene una coerenza interna all’universo narrativo che si è impegnato a riscrivere e ricreare.

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Per qualsiasi operazione di adattamento vale ricordarsi che tradurre equivale un po’ a tradire e che nel passaggio da una lingua all’altra la perdita più o meno ingente dello schema originale rimane inevitabile.

Allora qualcuno obietterà: “Ok, ma stravolgere è diverso”. Gli risponderemo ricordandogli tutte quelle trasposizioni che hanno saputo far parlare le loro fonti di ispirazione pur sconvolgendone la trama, i volti e il senso, per esempio – e limitatamente al mondo di Stephen King – Shining The Mist: belli e buoni in sé, validi in autonomia, senza il cordone con l’opera scritta e allo stesso tempo nel pieno rispetto dei suoi numerosi e mai univoci significati profondi.

Una cosa che ricerco sempre in ogni adattamento mettendo da parte la pretesa di trovarla. Come dimostrano la traditrice Torre Nera e il pedissequo Mercedes, entrambi monchi alla propria maniera di un quid sinceramente kinghiano, la fedeltà non è il punto della questione e quasi mai una garanzia di valore.

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Francesca Fichera

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