Silence, l’opprimente silenzio di Dio tra i gesuiti missionari di Martin Scorsese – di Fausto Vernazzani.
Sentiamo il peso della colpevolezza cascarci addosso quando definiamo un film “capolavoro”, percepiamo la forza del tempo e l’immortalità di quello che scriviamo su internet come una spada di Damocle pronta a colpirci e a distruggere le nostre sensazioni. Certe volte però è bello poter uscire dalla sala dopo aver visto opere come Silence di Martin Scorsese e potersi permettere di esprimere una sensazione di pancia: scacciamo la parola capolavoro e tutte le sue implicazioni, ammettiamo di aver visto tuttavia qualcosa di più unico che raro.
Scorsese e la spiritualità
Non ne faccio segreto, Martin Scorsese l’ho sempre amato soprattutto per i suoi film sceneggiati da Paul Schrader, quel lato della sua filmografia teso all’introspezione e alla spiritualità: Taxi Driver, Toro Scatenato, L’ultima tentazione di Cristo, Al di là della vita. C’è qualcosa nello Scorsese devoto, imbrigliato nell’ombra d’un singolo personaggio forte come Jack la Motta o Travis Bickle che trascende l’ambiente circostante, quelle palpabili atmosfere d’epoca o d’ambiente come Quei bravi ragazzi, The Aviator e L’età dell’innocenza, tre film che adoro.
Ho pagato dunque il biglietto per Silence con speranze superiori alla media con cui mi avvicino a Scorsese, media già sopra la vetta dell’Everest. Non sono stato affatto deluso. Anni fa acquistai il romanzo di Shusaku Endo e già allora la fascetta parlava del futuro adattamento di Scorsese e dopo averlo visto riesce difficile inquadrarlo in una fetta della sua filmografia, perché il gesuita Rodriguez protagonista ha tanto dell’Henry Hill di Ray Liotta quanto del Gesù di Willem Dafoe: è un uomo intriso di passione e dilaniato dalle incertezze che porta con sé la paura.
In missione per conto di Dio
Siamo nel Giappone dell’isolazionismo più duro, nel periodo Tokugawa iniziato nel XVII secolo. Il cristianesimo che aveva iniziato a prendere piede è falciato via con la forza tutto d’un tratto, lo Shogun desidera estirpare l’influenza dei paesi stranieri, a nessuno se non agli olandesi è concesso scendere sulla terra ferma e i preti gesuiti che decidono di entrare clandestinamente per diffondere la parola di Dio incontrano solo la sofferenza delle repressioni, sulla propria pelle e su quella dei cristiani convertiti, carne sacrificata per distruggere gli insegnamenti di Cristo.
Padre Rodrigues/Andrew Garfield (straordinario, oltre ogni aspettativa) e Padre Garupe/Adam Driver (conferma il suo enorme talento) partono per il Giappone, ultimi preti, alla ricerca del loro mentore Padre Ferreira/Liam Neeson (gigantesco, letteralmente) di cui si dice abbia abiurato e accolto la vita giapponese dopo lunghe torture. Arrivati sulla costa con l’aiuto di un giapponese ubriaco, Kichijiro/Yosuke Kubozuka, iniziano la loro opera officiando la messa e i sacramenti per i villaggi cristiani di pescatori, finché non arriva l’inquisizione.
Stravolti dalla devozione dei locali come Inou/Issey Ogata e Mokichi/Shin’ya Tsukamoto (entrambi favolosi, da Oscar), sconvolti dalla brutalità degli ufficiali giapponesi, Rodrigues e Garupe dovranno affrontare il pericolo della blasfemia, il dolore indicibile dei più deboli e gli sferzanti dubbi sui loro insegnamenti in una terra così diversa culturalmente dalla loro. Silence sono 160 minuti nella testa di Rodrigues, frustate invisibili alla sua fiducia e alla sua umanità più che al suo credo a cui Scorsese dedica una didascalia in coda al film.
Lo scrigno del silenzio
La nebbia, le onde e la notte sono afflizioni mentali subite dai protagonisti e visualizzate nella fotografia di Rodrigo Prieto – quanto questa arte deve al Messico, quanto! – mai lasciata a se stessa in paesaggi stupendi ma fini a se stessi, Silence è un film dove i primi piani hanno un valore maggiore del panorama. Ogni volto, sporco, pulito, orientale e occidentale ha una storia chiusa a chiave da raccontare a Padre Rodrigues, ha in sé il segreto per continuare a combattere per la fede e spezzare la maledizione del silenzio dentro cui Dio è nascosto.
Così nelle 2 ore e 40 minuti di Silence osserviamo la fede incrollabile di Mokichi e ci chiediamo con Rodrigues se venga da Cristo o dal suo cuore, se Kichijiro conosce la forza della redenzione o se porti con sé una visione deforme della dottrina cristiana, se Padre Ferreira sia consapevole ancora del verbo segregato nella sua anima o se sia ormai solo un guscio, se Garupe saprà reggersi in piedi oppure crollerà come la sua indole timorosa e dubbiosa lascia intendere. Sono domande che nuotano nell’umidità, nelle giornate di caldo secco e schiacciano Rodrigues e noi con lui.
È uno Scorsese nei contenuti solo all’apparenza opposto a quello di The Wolf of Wall Street, entrambi raccontano la storia di un carattere forte, devoto, quale che sia l’oggetto del loro amore, ma nello stile Silence è assai lontano, è il frutto di una meditazione lunga, di una chirurgica selezione delle inquadrature all’interno dei luoghi e delle scenografie magistrali di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, le immagini sono delle morbide carezze che scivolano lateralmente come la macchina da presa, ci guidano con delicatezza e decisione.
Ecco, mi verrebbe spontaneo scrivere che Silence è ora uno dei miei film preferiti di Martin Scorsese, una dichiarazione che implica chiaramente come ai miei occhi sia uno dei suoi migliori. Come si può però affermare con tanta leggerezza qualcosa di simile di fronte all’opera di uno dei registi più importanti di sempre? Non è facile, forse non è giusto senza che il tempo abbia fatto il suo corso, però, appunto, è bello potersi abbandonare a se stessi, cedere al vizio della soggettività senza fingere il contrario e dichiarare il proprio amore per un film, per Silence.
Un pensiero su “Silence (Martin Scorsese, 2016)”