Jim Jarmusch e il suo racconto carveriano dei Broken Flowers.
Don come Don Giovanni: un nome che non è un caso quello del personaggio di Bill Murray in Broken Flowers. Un uomo distratto, confuso, che sembra sgattaiolato fuori dalla porta sul retro di Lost in Traslation.
Con una ragazza (Julie Delpy) bionda e vestita di rosa, già pronta a lasciarlo, e una casa in penombra, e una cassetta della posta da cui spunta una lettera anonima che gli parla di un figlio, avuto circa vent’anni prima da una qualsiasi delle tante amanti.
Aiutato dall’amico e vicino di casa Winston (Jeffrey Wright),ironico scampolo di un film di Spike Lee, Don si mette sulle tracce del diciannovenne e della sua misteriosa genitrice, usando il colore rosa della missiva a mo’ di sbiadito filo rosso da seguire.
Sinfonia rosa… e bionda
Ed ecco che, nel corso dell’ipnotico viaggio accompagnato dalle note di Marvin Gaye e Holly Golightly, Broken Flowers si diletta a sparare in faccia allo spettatore tutti i suoi assi nella manica.
Iniziando dal cast, pieno di stelle splendenti e dorate; in ordine di apparizione: Alexis Dziena, Sharon Stone, Frances Conroy (quella di American Horror Story) Chloë Sevigny, Jessica Lange e Tilda Swinton, che richiamano alla memoria la sinfonia bionda di White Oleander.
Il senso del viaggio è il viaggio stesso
Tuttavia, lontano dalle immersioni oniriche in bianco e nero di Dead Man e dalla potenza ieratica di Ghost Dog, questo lavoro di Jim Jarmusch conserva tutti i pregi e i difetti di un racconto carveriano: acquisisce un senso esclusivamente nel suo divenire, perché diviene, si muove, va avanti.
Ed è attraverso quel movimento che accende la luce sui particolari – il cibo per esempio, ripreso di lato o dall’alto, morsicato con sciatteria o disposto simmetricamente nel piatto, micronarrazione di una persona – e su ciò che essi sanno dire di un momento, di un luogo, di un mondo.
Broken Flowers fa parte della lunga serie di film sulla crisi di mezza età, rispetto ai quali rivela di avere in più (e in meno) l’incompletezza: il rischio è di trovarsi a fissare lo schermo come il Murray imbambolato, un po’ lost e un po’ troppo se stesso, dell’ultimo primo piano. E in compenso di riuscire a darsi più domande che risposte.
Francesca Fichera
Voto: 3.5/5
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