American Horror Story

American Horror Story: We Are All Freaks

Jessica Lange saluta le scene di American Horror Story sul palco di FreakShow.

Monsters are all human, i mostri sono tutti umani. Lo diceva suor Jude fra le mura di Asylum, il manicomio protagonista della seconda stagione di American Horror Story. Parole in tutto e per tutto accostabili al We Are All Freaks che intende essere il concetto portante della quarta, FreakShow, da pochi giorni giunta al termine in America. E che, nonostante le abbondanti critiche del pubblico, ha dimostrato di saper difendersi e addirittura spiccare all’interno del ciclo televisivo ideato dal guru Ryan Murphy assieme a Brad Falchuck.

Il perché è presto detto, e va in contraddizione proprio con l’oggetto primario delle critiche degli spettatori: la scritturaFreak Show inizia in sordina, ma è un camminare in punta di piedi che ha dello stupefacente: il nuovo alter-ego dell’onnipresente e accentratrice Jessica Lange  Elsa Mars, chiaramente assimilabile alla figura della diva tedesca per eccellenza Marlene Dietrich – incontra per la prima volta le gemelle siamesi – una Sarah Paulson in versione bicefala – e le convince a seguirla nel corso di un dialogo… a tre. Che è straordinario, vista anche la sua traduzione registica in split screen. Una parte di schermo pro capite, letteralmente.

Per il resto la serie conserva il suo solito modo di narrare procedendo per salti temporali ma, a parte qualche sporadico guizzo, simile a quello appena citato, sul piano della regia e soprattutto del montaggio sembra aver rinunciato a quella ricerca di straniamento, costituita da raccordi e stacchi irregolari, che ne aveva caratterizzato le prime due stagioni. E che da sola non sopperiva alle carenze dello script, presenti in veste di errori veri e propri – specialmente nell’esordiente Haunted House – o di inconsistenza – cosa che ancora disturba alcuni fan – nella già menzionata Asylum.

La prima veniva meno a qualsiasi principio di coerenza o verosimiglianza pur di riuscire ad avvincere – e il suo successo dimostra che ce l’ha fatta; la seconda lasciava sospese – volutamente, fanno intendere le ultime notizie – non poche linee narrative, motivandole in maniera sommaria e con un’inclinazione spiritualista che parecchi seguaci hanno interpretato come manifestazione ennesima del buonismo di Murphy e soci.

 

In realtà American Horror Story, per quanto adattandolo coerentemente al proprio contesto, tiene fermo il concetto di giustizia molto più di altre serie contemporanee – ad esempio Il trono di spadeAnche fra i baracconi di Miss Mars,chi si macchia del delitto peggiore riceve la punizione che merita. Nonostante abbia tentato di redimersi – e in alcuni casi proprio per questo motivo.

È qui che la fondamentale cattiveria degli sceneggiatori della serie assesta ancora i suoi colpi, facendo sì che il personaggio più crudele in assoluto, il malvagio cocco di mamma Dandy (Finn Wittrock) sopravviva fino in fondo a tutti gli altri villain, ridotti a nient’altro che pallidi tentativi di malvagità – incluso [SPOILER]

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Twisty, il tristissimo killer seriale vestito da clown.

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Perché è Dandy, una delle figure di psicopatico più impressionanti mai apparse e interpretate sullo schermo, frutto di una ricchezza eccessiva, vuota di senso e sentimenti, l’unico e vero figlio del Male. Di un’America normale solo all’apparenza e, poco sotto la superficie, essenzialmente mostruosa, come raccontato benissimo da uno dei capitoli meglio riusciti di Freak Show, il decimo (Orphans) toccante digressione sulla vita della testa a punta Pepper.

Ma se da un lato Il trono di spadeAmerican Horror Story sono distanti, su un altro versante si avvicinano, ed è quello sociale. Fin dalle origini, infatti, lo show di Murphy e Falchuck ha messo al centro la figura femminile incastonandola in un percorso di continuo riscatto. Prima, con The Haunted House, denunciandone gli abusi; poi in Asylum sottolineandone le rinunce; quindi, con la terza e narrativamente più tradizionale Coven, incentrata sulle streghe, fissandola entro una cornice pseudofemminista (con il sostegno e il cammeo di un’icona della vecchia guardia del movimento, la cantante Stevie Nicks).

Ora con Freak Show la riscrittura del contesto ha più importanza di quella dell’interiorità individuale: la donna, in particolare quella vestita dalla Lange, è vittima del sistema dello showbusiness, messa contro i propri stessi sogni di gloria da avidi approfittatori (rappresentati in tal caso dal personaggio di Denis O’Hare, sempre azzeccato ai ruoli maschili più viscidi). Come dal tempo che passa.

Per fortuna una controparte positiva c’è e la impersona la ghetto girl con tre seni di Angela Bassett: donna, freak e di colore – il che per l’epoca d’ambientazione, gli anni Sessanta, probabilmente è il massimo – ma con un coraggio e un impeto che faranno strada. E a loro – forse discutibile modo – trionferanno, proprio come il figlio nano dei Lannister in Game of Thrones.

Infine, le citazioni: anche quelle immancabili, fin dagli inizi. Alfred Hitchcock e Bernard Hermmann per Haunted House, Shirley Ellis per Asylum, il cinema di Baz Luhrmann e (come già detto) i Fleetwood Mac per Coven. Più esattamente, sotto questo aspetto Freak Show rappresenta un caso a se stante. Il non plus ultra. Nasce difatti già come citazione, riproduzione e omaggio a quell’universo freak che Tod Browning iscrisse per sempre nell’immaginario culturale nel 1932. Del film si parla esplicitamente, e con una precisa motivazione, all’interno dell’episodio 12 (Show Stoppers) svelando con un abile artificio narrativo lo scheletro e il risultato finale del racconto.

Intanto su un livello meno profondo si moltiplicano i riferimenti al mondo della musica: Fiona Apple (CriminalNirvana (Come As You AreLana Del Rey (Gods and Monsters) e über alles David Bowie, che la Lange reinterpreta vestendo gli abiti di un novello Angelo Azzurro, in due modi e in due tempi. E con un deciso eccesso di patina e glitter. Ma a noi piace così. Se non altro, per quello che trucchi e maschere nascondono. E, sì, sempre se la Lange non abbandona la baracca al di là della finzione.

Francesca Fichera

 

 

 

 

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