Il mare (a)dentro che non salva nessuno
Il mare è ciò che mi ha dato la vita e ciò che me l’ha tolta.
Della buona morte il cinema è pieno, e un film come Mare dentro di Alejandro Amenábar non è il primo né l’ultimo a raccontarla. Però rientra di sicuro fra quelli che lo hanno fatto meglio.
Storia di un diritto
La storia verissima è quella di Ramón Sampedro – nella pellicola Javier Bardem, probabilmente all’apice della sua carriera – che all’età di 25 anni, in seguito a un tuffo sbagliato, diventò tetraplegico.
Per i restanti 29 invocò il diritto al suicidio assistito perché le sue condizioni non gli consentivano di autogestirsi neanche nella morte; coinvolse amici, parenti, autorità e opinione pubblica; scrisse lettere e poesie. E – per quanto forse troppo tardi – riuscì a morire.
La vita negli occhi
Come in Apri gli occhi – anche se con un senso diverso – Amenábar sceglie di narrare un dramma dove vedere è letteralmente tutto: un riquadro di luce spalancato sul ricordo del mare, immaginare di librarsi su paesaggi sconfinati fino a raggiungere la spiaggia, una porzione di colore come scoglio in mezzo al nulla.
Sin dal primo frame (illuminante e luminoso) proseguendo per il crudo e azzurro ritratto di un uomo immobile, la cui unica fonte di sollievo risiede in una finestra, qualche foglio bianco da imbrattare e il suono della radio, l’atto della visione resta l’unica cosa che possa in qualche modo assomigliare all’idea di libertà; la stessa che rende una vita degna di definirsi tale.
Un incubo celeste
Le cose stanno così, e Amenábar non fa sconti di pena nel mostrare la loro assoluta e casuale crudeltà: non romanza, non rallenta, non addolcisce la morte vestendola di falsa quiete.
Le Lettere dall’inferno scritte da Ramón Sampedro rivivono sullo schermo con la giusta – o si dovrebbe dire necessaria – quantità di realismo, che le sequenze di volo – una delle quali accompagnata dal Nessun dorma – non intaccano ma, al contrario, contribuiscono a rinvigorire.
Sogni senza risveglio
Così, privo di eroismi alla Million Dollar Baby o delle ridondanze stilistiche de Lo scafandro e la farfalla, Mare dentro atterrisce, scuote e commuove profondamente come un Miracolo a Milano traslato e tragico: unendo il linguaggio del sogno a quello della nuda realtà e sottolineandone la fondamentale interdipendenza.
Accanto alla visione mette la scrittura: lucida e di spessore, come nel momento in cui fa dire “quando uno non può scappare e dipende costantemente dagli altri, impara a piangere ridendo“, che sa mirare al cuore più dei simboli. E che tocca il cielo se ad essi si accompagna, come nello splendido, lirico e sconfinato finale.
Francesca Fichera
Voto: 4.5/5
Un pensiero su “Mare dentro (Alejandro Amenábar, 2004)”