The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013) parte II

The Wolf of Wall Street è l’uomo contemporaneo.

Se in anni così notoriamente turbolenti per i mercati a Piazza Affari oltre 400 tra trader, banchieri e giornalisti e avvocati d’affari hanno potuto vedere in loco la prima del nuovo film di Martin Scorsese, vuol dire che da The Wolf of Wall Street ci si aspettava qualcosa di epico, il ritratto definitivo di Wall Street.

Mentre diverse figure professionali si sono poi affannate nel rimarcare le differenze pratiche tra l’operare quotidianamente in borsa e la caccia all’oro fraudolenta e irriverente di Jordan Belfort, è essenziale ribadire un concetto che invero emerge piuttosto visibilmente nel film: per immedesimare il soggetto nell’oggetto, siamo al cospetto di un film necessariamente ridondante, anzi esplosivo, quando non semplicemente incredibile, per quanto si tratti pur sempre della messa in scena ampiamente verosimile di una non meno sfrenata autobiografia.

Non siamo davanti alla simulazione esatta di come funziona una holding finanziaria, ma alla rappresentazione cinematografica di una storia particolare capace di testimoniare tutti gli altri spasmi irriflessi e e le pulsioni distoniche che animano il contesto in cui prendono vita. E infine, non siamo neppure davanti a dei soggetti, ma a dei corpi tossici, non meno delle penny stock che liquidano a destra e a manca, ridotti a una bestialità in giacca, cravatta e status che poggia su qualsiasi discontrollo emergente.

Sesso, droga, violenza: tutto è gratuito, tutto è connaturato a un sistema che gira a ritmi insostenibilmente veloci, anestetizzati e inesauribili, poiché del tutto scollegata a qualsiasi elemento naturale.

Quello che da più parti è stato etichettato come la trasposizione di Casinò e Quei Bravi Ragazzi sul piano della finanza d’assalto, al passo dei tempi e delle droghe subentrate nel tempo intercorso tra un film e l’altro, si basa tuttavia su un soggetto ben più politicamente scorretto, perché a differenza degli altri due titoli di Scorsese citati raffigura una storia e un mondo che non sono ancora storia fatta e finita, ma realtà quotidiana e matrice principale dello scontento della classe media di tutto il mondo, che da più parti ha mosso una critica plausibile, per quanto fuori contesto (l’arte prima che una questione etica è una questione estetica) all’enorme carisma che uno stratosferico Leonardo DiCaprio ha dotato al suo personaggio, descritto invece come un mero farabutto (a partire da Joel Cohen, il procuratore che lo ha inchiodato) che non ha ancora restituito che pochi spiccioli alle vittime dei suoi traffici finanziari e scontato una pena irrisoria per i reati commessi.

Sia Scorsese che DiCaprio si sono poi affannati nell’esplicitare il loro tuttavia ben implicito atto di accusa a Wall Street, che era già stata rappresentata nella sua natura necessariamente cinica da registi come Oliver Stone e documentari come Inside Job, senza però testimoniarne il lato più saliente e rappresentativo di ogni deriva di sistema contemporanea, la gratuita e autistica bulimia di eccessi che ne contagia ogni azione: non c’è davvero alcun punto di contatto con un qualsiasi residuo di umanità, consapevolezza e senso del limite, non c’è niente che mai possa far pensare realmente a una redenzione risolutiva, non c’è un sentimento che non sia strettamente recluso nell’individualismo cannibale ed eppure così ben vestito e sorridente.

L’indimenticabile cameo di Matthew McConaughey fornisce la chiave di lettura di quello spirito del tempo senza giudizio nato negli anni ’80 e sotto cui oggi crescono e cadono artificialmente intere nazioni e continenti, così come è artificiale lo stato di annichilimento freneticamente edonistico di quel grande gioco d’azzardo che costituiscono i mercati finanziari, sempre più disumanizzati e fuori controllo, in mano come sono a computer, bit-coin e qualsiasi strumento automatizzato, ed inclusi entro una logica in cui nessuno può prevedere l’andamento di alcun titolo, tutto ciò che conta è incrementare le giocate sull’enorme tavolo verde della finanza mondiale.

Non ha nessuna importanza se il primo giorno sul campo del protagonista coincide col Lunedì Nero del 1987, se la retorica del tuo paese di appartenenza si regge sull’illusione di poter concedere a tutti l’opportunità di diventare milionari, a scapito di qualsiasi limite auto-imposto a se stessi da e al sistema. E non ha nessuna importanza nessuna contingenza strettamente privata, rappresentata nel film per deriva decorativa efficacemente barocca.

Ciò che è certo però è che ora in poi tutti guarderanno al broker di Wall Street con rendite milionarie attraverso la figura di Jordan Belfort, e non c’è modo più efficace nel valutare un’opera artistica che questo: se crea un simbolo imperituro nell’immaginario collettivo, è un capolavoro. È bene sottlineare come The Wolf Of Wall Street lo sia dunque a pieno titolo. Avevamo creduto lo stesso per il comunque bellissimo Cosmopolis di Cronenberg e per le medesime ragioni, pur passando da toni e soggetti più circoscritti e morali.

Scorsese ancora una volta ci insegna come l’amoralità sia già sufficiente e anzi più efficace di qualsiasi epica per descrivere l’essere umano contemporaneo, benché stavolta non sia un sogno fuori orario ma una realtà costante e coerente in ogni suo accesso morboso, tre ore di scioccante e conturbante rivelazione sul peccato che sta sconvolgendo un’epoca: l’avidità.

Luca Buonaguidi

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