Nel blu dipinto di blu della Vita di Adele.
Non ci può essere amore se non si è se stessi con tutte le proprie forze
Italo Calvino
Della costruzione di un’identità e del dolore che questa comporta Abdellatif Kechiche scrive, con Vita di Adele, un vero e proprio trattato in due capitoli separati da una dissolvenza in nero e da un lampo di differenza che attraversa gli occhi. Tecnicamente ineccepibile, l’opera vincitrice della Palma d’Oro di Cannes 2013 ha mani invisibili che premono indisturbate le corde delle emozioni; può dirsi perciò completa, una narrazione fatta di sostanza – cioè di forma e d’essenza – pulsante di senso, come di rado si ha l’occasione di vederne.
Ingannevole è il bacio saffico sulla locandina (ma promozionale senz’altro) perché Vita di Adele parla di un amore (e di una vita) qualsiasi e, proprio per questo, speciale. L’amore e la vita di Adele (Adèle Exarchopoulos) sono solo una delle possibili strade del mondo, allo stesso modo in cui lo sono l’amore e la vita di Emma (Léa Seydoux) lo stravolgimento vestito di blu. La differenza la fanno le conseguenze, diametralmente opposte come sembra che siano anche le due donne. Che, guardando meglio, forse non sono altro che il germoglio chiuso e il fiore, la sorgente e il mare, il nero e il bianco, il ghiaccio lasciato a sciogliersi e l’altro a indurirsi.
Comporsi, decomporsi e ricomporsi sono tutte parti di uno stesso processo (soprattutto umano) che il film di Kechiche rappresenta con l’uso della ripetizione: di ambienti – la scuola, il bar, la strada, la camera da letto – azioni – mangiare, accoppiarsi, ballare, dormire; e naturalmente di quel leitmotiv che è il colore, il fil bleu di un racconto che sta a significare l’eternità di un incontro, il segno incancellabile della devastazione amorosa, di come il sentimento supremo – per dirla con Platone – faccia da spinta, da scintilla al moto di conoscenza, in primo luogo del sé.
E se è vero, come sosteneva Carl Jung, che chi si guarda dentro si sveglia e, come diceva qualcun altro, che chi ama esiste sempre e ancor prima di conoscerci, allora l’occhio dell’amore è il terzo faro che abbiamo per illuminare la via: uno sguardo quiescente, in attesa del momento giusto per aprirsi e di quello sbagliato per richiudersi.
Per Adele, Emma è quel terzo occhio. La sua profezia l’accompagna mentre Vita di Adele accompagna noi, in un preludio cromatico fatto di pareti, abiti, smalti, borse, tamburi, pronto a esplodere nel dispiegarsi casuale delle forze del cuore. Nello spiccare della chioma bluastra tra la folla.
In questa sinfonia in blu suonata da Kechiche, che un poco rievoca Kieslowski, il ritmo tende, implode, rallenta, accelera così tanto che tra somiglianza e sovrapposizione a una vita reale la differenza diviene impercettibile: la sensualissima e sguaiata Adele della Exarchopoulos e la spigolosa e inquieta Emma della Seydoux sono vere, le abbiamo conosciute; abbiamo spiato i loro amplessi, partecipato ai loro pasti, fatto delle loro esistenze incrociate il nostro sottofondo.
Ci è riuscito di capire assieme a loro che il desiderio non basta a riempire il vuoto d’anima; che se «manca qualcosa al cuore» e se s’ostina a farlo potrebbe non rimanere altro all’infuori delle lacrime, della saliva e di tutti gli altri umori che ci fabbricano. E che senza comprensione saranno crudelmente destinati a sgorgare senza motivo alcuno.
Francesca Fichera
Voto: 5/5
2 pensieri su “Vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013)”