Quando la donna nella stanza presentò Stephen King a Frank Darabont.
Ho una chicca per voi. Una chicca trovabile –ed è strano, perché di solito queste cose sono difficili da rintracciare. Invece scopri che è sufficiente fare un paio di ricerche sul web, non lasciarsi ingannare dai casi di omonimia, benedire con tutte le proprie forze la semi-permanenza di Wikipedia e apprendere che The Woman in the Room, classe 1983, è il primo lavoro del regista Frank Darabont. Ed è, non a caso, tratto da un racconto kinghiano.
Sì, lo so, qui si sfiora la psicosi maniacoossessiva, ma il fatto che la carriera di Darabont sia cominciata così rappresenta a dir poco un dato scientifico. Perché? Perché va bene il talento, ma per assicurarsi la riuscita dei propri progetti è necessario anche e soprattutto un prolungato allenamento.
Il regista francese ha iniziato il suo percorso interpretativo degli scritti di King a soli vent’anni, per poi finire col raggiungere i picchi de Il miglio verde e Le ali della libertà. Tutto questo con il minor numero possibile di misunderstanding, senza chiudersi nel filo spinato di un genere unico ma facendo dialogare fra loro forme differenti.
L’importanza di essere essenziali
Sia ben chiaro, l’opera prima di Darabont – 30 minuti semplici e scarni, nudi e crudi – non suscita tutte queste riflessioni. È il suo cammino cinematografico negli anni che mi (ci?) fa parlare. Ma i presupposti sono chiari quanto le intenzioni. E nel breve film de La donna nella stanza l’essenziale, una volta tanto, è visibile.
Non v’è spoiler che tenga: quella stupenda arma a doppio taglio che è il web vi spiega ogni cosa togliendovi ogni tipo di sorpresa. Del resto cosa ci si può aspettare da una storia che vede per protagonisti un uomo distrutto e una donna – sua madre – ridotta in fin di vita dal cancro?
La risposta (che potrebbe essere anche un tag) è una e una soltanto: eutanasia. Un po’ come per Paolo Sorrentino (!) a contare non è tanto il prodotto finito, la conclusione, l’effetto, il risultato. Anche al cinema il viaggio ha più importanza della meta.
Dunque stavolta ben vengano i rovina-finali. C’è qualcosa in più che potrebbe interessarvi, incuriosirvi, prima dell’ultima inquadratura.
Come quella sequenza onirica che…
Francesca Fichera