Cronenberg adatta King, due titani a confronto con La zona morta.
Attenzione attenzione. Qui si parla sempre di Stephen King e dei film scaturiti dalla sua parola scritta.
Uno di questi è La zona morta, primo lavoro di David Cronenberg inserito nel circuito di Hollywood, liberamente tratto dall’omonimo romanzo kinghiano del 1979. Non staremo qui a discutere per l’ennesima volta sulle buone regole per rendere un’opera letteraria al cinema, no. Ci limiteremo a valutare il testo filmico – e già usare un termine del genere ci rende tutti più bellamente professionali.
La storia
Per chi non la sapesse, è quella di Johnny Smith, insegnante sui generis rimasto coinvolto in un gravissimo incidente stradale, dal quale si risveglia dopo cinque anni. Il tempo perduto lo attanaglia più del dolore fisico: la fidanzata Sarah ha messo su famiglia con un altro uomo, il lavoro è andato, i genitori invecchiati in maniera repentina. Ma non è tutto.
Dormendo per cinque infiniti anni, Johnny ha risvegliato qualcosa dentro di sé. Una “seconda vista“, un dono – chi ha guardato Hereafter di Eastwood sa bene quanto questo genere di capacità possa facilmente passare dalla definizione di potere magico a quella di maledizione.
John riesce a visualizzare l’immediato futuro, a sradicare le verità nascoste delle persone. Nell’America bigotta e ipocrita della provincia (e non solo) il suo destino è praticamente e paradossalmente già scritto – o forse no. Perché Mr. Smith è ciò che per comodità si suole chiamare fenomeno da baraccone, ma non soltanto quello.
Un filo spezzato
Se da un lato il filo della tensione si affloscia inesorabilmente e il ritmo decresce, il discorso fra le righe del racconto si fa via via più evidente: peccato che sia soltanto uno dei tanti possibili de La zona morta cronenberghiana.
Christopher Walken, sofferente nel volto e nello sguardo, è l’uomo distrutto (in qualsiasi senso lo si voglia intendere) che, da solo, ricostruisce se stesso e costruisce qualcosa per gli altri. Ed è l’unico elemento funzionante, a posto, in regola, all’interno del film di Cronenberg. Che si rivela algido, piatto come l’acqua di un lago. Quasi ai limiti della sciatteria.
Non v’è traccia dei consueti colpi d’occhio geniali del regista canadese (a parte il solo esempio della “scena delle forbici”, sulla quale non dirò nient’altro perché detesto fare spoiler quanto subirlo). Il finale, poi, uccide ogni speranza. Lo spessore è assente: esiste soltanto la gigantesca infelicità del protagonista, la faccia pallida e contratta di un illuminato Walken quarantenne.
Tutto il resto funge da (s)morto e affrettato contorno. Sufficiente per nostalgici (e fanatici) che amano rivedere i loro beniamini cartacei in carne ed ossa. Superfluo se considerato nella sua autonomia – ripeterlo ci piace – di testo filmico. E ve lo dice una che Cronenberg lo venera.