Un sorprendente soffio di vita da Kim Ki-duk.
Con Kim Ki-duk si impara presto la lezione: bellezza e dolore si sposano facilmente. Nella prima filmografia dell’artista sudcoreano non v’è spazio per la pietà come per la volgarità: la tragedia non viene inscenata né narrata, ma dipinta e messa in cornice. Dopo Ferro 3 e Time ce ne dà conferma l’ennesimo esempio immortalato di Eros e Thanatos, Soffio.
(I sensibili e gli ipocondriaci se ne astengano, stomaco e milza rischierebbero un crollo strutturale. Del resto chi ha visto almeno due film del regista in questione sa benissimo cosa aspettarsi, quindi se sceglie di lanciarsi nel vuoto lo fa con consapevolezza).
In un soffio, la trama
Seguendo il classico schema ad anello Kim Ki-duk ci parla di Yeon, scultrice di professione profondamente insoddisfatta della sua vita famigliare – il marito la tradisce, la figlia piccola si sente trascurata.
Incuriosita dalle vicende di un detenuto prossimo alla pena capitale, tale Jan Jin, che più di una volta ha provato a togliersi la vita – per fare prima, direbbe un cinico – la donna si reca in carcere fingendosi ex compagna dell’uomo. Balla, canta, appiccica sfondi di carta alle pareti. Allevia per sentirsi alleviata.
Nascita di una passione
Nasce così una passione che rappresenta l’esatto riflesso del crudele gioco amoroso interno alla prigione, quello fra Jan Jin e un compagno di cella. Ma non c’è due senza tre: anche il marito di Yeon e la sua invisibile amante sono direttamente coinvolti nello scambio di pedine e di ruoli.
Si corre con angoscia verso la rassegnazione, come Kim Ki-duk insegna. Tuttavia a discorso concluso non si è esenti dal provare una briciola di sorpresa. Per gli sketch imbarazzanti di Yeon, per le sue confessioni – studiate, troppo studiate – per lo sguardo trasognato e muto del condannato, viene quasi da sorridere con nostalgia.
Kim trova il tesoro prima di scavare, evolve dalla ricercatezza alla semplicità senza realmente volerlo, crea l’enigma e ne offre la soluzione in ogni scena; un po’ morbosamente lascia anche indizi di sé, su tutti la scultura – elemento già presente in Time – allegoria (orribile) di un amore esteriorizzato.
Impeccabili, al contrario, le prove dei protagonisti Chang Chen [Jan Jin] e Park Ji-a [Yeon]. Ha concorso alla Palma d’Oro nel 2007, osannato dalla critica.
Francesca Fichera
Voto: 3.5/5