Sharp Objects - CineFatti

Sharp Objects: sulla punta dei ricordi

Sharp Objects: la memoria è negli oggetti

Come in un racconto di Edgar Allan Poe, dentro Sharp Objects l’orrore si evoca per immagini, suggestioni. E con una messa a fuoco chirurgica dei personaggi.

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A cominciare dalla Camille Preaker di Amy Adams, quasi una Berenice (Poe ritorna e non sarà l’ultima volta) che dall’infanzia all’età adulta subisce un profondo cambiamento, dalla sana e apparentemente spensierata giovinezza – con il volto spruzzato di lentiggini di Sophia Lillis – all’oscura e angosciosa insoddisfazione dell’età adulta.

Gli oggetti taglienti del titolo sono i rasoi (ma non solo) con cui si tormenta Camille, reporter di cronaca nera senza ambizioni da Pulitzer. Ma soprattutto i ricordi, affilati ma frammentati, che parlano di una infanzia dove l’elaborazione di un lutto familiare – l’adorata sorella Marian – non è mai avvenuta.

Una storia appuntita

Camille ha lasciato da anni la città natale di Wind Gap, quando il suo capo e mentore (Miguel Sandoval) ce la rispedisce per scrivere il pezzo della vita e inconsapevolmente per ricondurla alla se stessa bambina.

Quella che allontanandosi dai luoghi delle sue origini e dalla madre Adora (Patricia Clarkson) ha cercato disperatamente di annientare sotto litri di vodka travasata in più rassicuranti bottigliette di acqua.

L’articolo che deve scrivere riguarda l’omicidio di due adolescenti avvenuto a Wind Gap, un paesino della provincia americana (ricreato a Barnesville, in Georgia) dove si allevano maiali e si beve tè freddo sul patio. Un angolo sperduto di Missouri che la regia di Jean-Marc Vallée ci riconsegna a metà tra le atmosfere inquietanti di Twin Peaks e quelle laccate di rosa di Peyton Place.

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Le apparenze ingannano

È qui, nell’imponente casa coloniale che domina la cittadina, che la vita perfetta di Adora si svolge come quella di una delle mogli perfette del romanzo di Ira Levin. Il marito sembra una inespressiva e mansueta bambola di pezza e l’ultimogenita Amma (Eliza Scanlen), la sorella minore di Camille, sfoggia con noncuranza un doppio volto a seconda di chi la osserva: nastri tra i capelli e sorrisi compiti in famiglia, fuori dalle mura di casa Lolita irrequieta in rollerblade.

Non dirlo a mamma, dice a Camille più volte nell’arco del racconto. E in un caso questa battuta, supportata da un macabro candido ritrovamento (riecco Poe) sarà particolarmente rivelatore.

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Promesse spuntate (ma poi mantenute)

Creata da Marti Noxon (Dietland) e ispirata al romanzo omonimo di Gillian Flynn, la miniserie HBO trasmessa da Sky Atlantic parte lenta e piena di promosse che sembra nel corso degli otto episodi non mantenere.

Poi però si arriva a quel doppio episodio finale spiazzante e meraviglioso. Ogni tassello va al suo posto, anche se non a tutte le domande viene data risposta. Soprattutto a quelle che riguardano l’autolesionismo di Camille, protagonista di una serie di flashback che la regia e il montaggio di Jean-Marc Vallée immergono in una atmosfera rarefatta e fastidiosa.

Ed Amy Adams, di nero vestita, è generosissima nel mostrarsi e nel mostrare. Eterea e innocente nello sguardo, carnale nel vivere la sua fisicità. Così come già la Rosamund Pike di Gone Girl – L’amore bugiardo e Charlize Theron sotto il cappellino da baseball della protagonista di Dark Places – Nei luoghi oscuri, dagli adattamenti cinematografici di altri due romanzi di Gillian Flynn.

La memoria delle donne

Ancora una volta sono le donne a riempire la scena, come già nella precedente serie di Vallée. E proprio come in Big Little Lies, anche in Sharp Objects l’effetto di straniamento parte dai titoli di testa (una canzone diversa in ogni episodio, le onde dell’oceano in Big Little Lies) che introducono a un misterioso delitto.

Non sarà l’esito della ricerca della protagonista il vertice emotivo della storia, bensì il modo in cui permetterà ai ricordi – orribili e dolorosi – di prendere colore e sostanza.

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Francesca Paciulli
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