Tre manifesti a Ebbing, Missouri, didascalie di una violenza incompresa.
Annunci in pompa magna potranno parlarci quanto vogliono di quanto gli Stati Uniti godono di una salute eccellente, tuttavia a un’attenta osservazione li vedremo presi da nuovi conflitti razziali, marce delle donne richiedenti il rispetto dei propri diritti, povertà e ignoranza diffusa nella provincia. A Martin McDonagh sono bastati Tre manifesti a Ebbing, Missouri per riuscire a parlare dell’America odierna. Senza giudizi.
(In)giustizia
Niente che non avessimo già visto del fronte interno, Tre manifesti a Ebbing, Missouri non presenta un ritratto nuovo o diverso della provincia. Le situazioni sono le solite, esiste un corpo di polizia ignavo e a tratti razzista, un giovane agente famoso per aver torturato un afroamericano, una chiesa più setta che comunità e un caso di omicidio e stupro irrisolto. Nessuno pare davvero interessato a dare giustizia.
Un’immagine già vista, peraltro colpevole di un uso sfrenato, irritante e sinceramente eccessivo della voce narrante, ma i Tre manifesti a Ebbing, Missouri nella scrittura dei personaggi fa qualcosa di assolutamente innovativo all’interno del genere: chiude i battenti davanti al giudizio, la sua protagonista Mildred Heyes (Frances McDormand), madre della vittima e autrice dei cartelloni, genera l’opposto dell’empatia.
McDonagh presenta un dramma tragicamente comune e ne fa oggetto di crescita sociale, evita la rappresentazione lacrimevole e dà una voce ai personaggi deprecabili. Quanto davvero lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) è negligente? L’agente razzista Dixon (Sam Rockwell) è colpevole dei suoi difetti? Mildred è stata una madre modello di Robbie (Lucas Hedges) e della defunta Angela (Kathryn Newton)?
Essere è non avere
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è una sequela di storie incrociatesi all’ombra delle malattia di cui gli USA sono infetti, un cancro contro cui non esiste una cura efficace, solo l’azione del comune cittadino, non sempre un esempio da seguire. Mildred non è una cittadina progressista, è una madre dolente così come Dixon è un figlio senza una guida e Willoughby un padre e marito senza un futuro da aspettare col sorriso.
Una tripletta di personaggi distanti e in conflitto, eppure destinati a incontrarsi facendo da spalla amica al proprio avversario. McDonagh attraversa lo specchio pur di trovare un nuovo mito da sostituire all’empatia per il sofferente, in Tre manifesti il regista sposta tutta l’attenzione del pubblico verso l’identificazione per mezzo delle assenze. Ciò che manca definisce ognuno dei protagonisti e non quanto è stato loro tolto.
McDonagh vuol dire qualità
Va da sé che abbiamo poco di cui discutere su un piano tecnico, della famiglia McDonagh Martin è lo stomaco mentre John Michael (mai visto Calvario?) è il cervello. Entrambi straordinari e amanti del black humour, ognuno con una sua cifra stilistica precisa. Martin sa parlare e colpire alla pancia, soprattutto come sceneggiatore, e Tre manifesti è un magnifico esempio di come comunicare tolleranza e comprensione.
Se ora sia anche degno del massimo della gloria in termini di premi negli USA è tutto da vedere. Le sale devono mostrarci ancora tanto altro, ma è certo che sarebbero dei bei ruoli per premiare Frances McDormand e Sam Rockwell, anche da una prospettiva politica, la principale da considerare quando parliamo di Oscar. In ogni caso è la conferma di un discreto autore e di un cinema USA che può parlare una lingua diversa.
Fausto Vernazzani
Voto: 4/5
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