La serie giusta al momento giusto, The Handmaid’s Tale di Bruce Miller.
Ho la sensazione che il mio stomaco cerchi di impiccarsi con l’intestino ogni qualvolta sento parlare di un film/libro di anta anni come di un esempio di “grande attualità“. Un prodotto culturale che si rispetti sa sempre parlare del proprio tempo e non esiste legge della fisica che impedisca agli eventi di ripetersi o, meglio ancora, di fare rima con se stessi, per dirla con le parole di Mark Twain. The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood non è semplicemente una storia “attuale”, è il libro giusto.
Lotta per l’equità
È il ritorno travolgente di una tematica assai sentita nell’industria culturale contemporanea: il tentativo di eliminare le differenze di genere. Il racconto dell’ancella scritto dalla Atwood nella sua trasposizione televisiva di Bruce Miller per il canale online Hulu si incastra alla perfezione nella situazione socio-politica statunitense come megafono per la voce dei dimenticati. Che non sono le fasce deboli, bensì gli orrori del passato, capaci di ripetersi sotto forme impreviste, quasi “medievali”.
La distopia di cui Elisabeth Moss è la sensazionale protagonista (Mad Men, Top of the Lake la pongono già in cima al meglio della televisione) la definiamo una teocrazia. Come risposta all’infertilità dilagante dei bigotti in posizioni di potere scatenano una guerra civile e trasformano parte degli USA in Gilead, uno stato autoritario dove governa una morale religiosa fondamentalista. La Bibbia è piegata al volere e alle esigenze della oligarchia in lotta contro i pochi ribelli sparsi per gli ex-Stati Uniti.
“Hanno approvato una nuova legge”
Chiunque soffre in un governo totalitario, in The Handmaid’s Tale sono però le donne a dover portare il fardello più pesante. Ogni donna fertile è rapita e assegnata alle case dei Comandanti e ogni mese dovranno sottostare alla cerimonia: un rapporto sessuale, stupri di massa per dare ai gerarchi quei figli tanto desiderati. Se eravate stanchi delle solite distopie da young adult smettete di rantolare “non c’è più originalità”, la June Osborne della Moss è un personaggio della quotidianità, non Katniss Everdeen.
Le guerre globali e gli inverni nucleari dietro le società immaginate con più o meno successo da Suzanne Collins, Lois Lowry, Veronica Roth e altre scrittrici poggiano sui miti del conflitto globale. L’occhio della Atwood cascò su quanto lo precedette: “hanno approvato una nuova legge” dicono dall’alto e sotto i loro occhi inizia la morte dei diritti umani, la decadenza di un presunto progresso conquistato e ormai inviolabile. The Handmaid’s Tale scrive il risultato di un ritorno al passato.
F*cked Up Society
È uno di quei casi in cui si può affermare che la scrittura seriale ha superato il cinema, avendo a disposizione tempi lunghi in cui approfondire situazioni e storie personali. Sullo stile dobbiamo invece esporci diversamente per collocarlo all’interno di un discorso televisivo che vede The Handmaid’s Tale ereditare la costruzione del frame dagli autori di Mr. Robot, quella serie di cui nessuno parla dai tempi della caduta dall’ottavo piano della seconda stagione. Sul serio, un volo in picchiata dritto fino al marciapiede.
Si privilegia un’inquadratura geometrica, primi piani intensi e a tratti distorti per contorcere i dogmi della televisione generalista, efficaci col volto espressivo di Elisabeth Moss tanto quanto lo furono con lo sguardo ipertiroideo di Rami Malek. Non mancano anche le immagini distintive di Mr. Robot, quei riquadri in cui l’ornamento primeggia sul soggetto per assegnare un ruolo importante all’ambiente. Si passa dal F*ck Society di Malek alla F*cked Up Society di June in un batter d’occhio.
Sound and Color
Se la regia si avvale di uno dei migliori esempi tecnici della serialità televisiva spetta alla fotografia farsi avanti per dare un tocco di originalità. Aspettatevi di leggere il nome Colin Watkinson sulla bocca di tutti. L’atmosfera desaturata è un escamotage semplice per far risaltare quei colori netti imposti dal nuovo ordine di Gilead: gli abiti verde smeraldo delle mogli dei Comandanti e il rosso carminio dei vestiti a cui sono obbligati le Ancelle. Tuto il resto è Luce, impressionanti tagli di luce.
Gilead è una enorme chiesa, ogni abitazione all’oscuro accoglie la luce del sole attraverso veneziane e spiragli nelle porte e finestre, ogni apertura verso l’esterno agisce da rosone sugli spazi chiusi in cui gli uomini vivono in una ipocrita penitenza costante. Gilead è quindi anche una enorme prigione per le sue donne, ancelle, serve e mogli, private a loro volta dei diritti conquistati con tanta fatica in decenni di lotte. Del presente nostro e “aperto” esiste solo la soundtrack non originale sui titoli di coda.
Sangue
È giusto chiudere con un disclaimer. The Handmaid’s Tale è dura da digerire, la violenza è diretta, sia carnale che non, e tutto il merito per la sua vivacità è nell’incredibile cast oltre che nella eccellente scrittura. Joseph Fiennes e Ann Dowd (già in The Leftovers meritevole di una decina di Emmy) dal subdolo lato di Gilead spiccano come agenti del “male” tanto quanto dal lato opposto Alexis Bledel (Una mamma per amica) e Samira Wiley (Orange is the New Black) trasmettono fierezza e sofferenza. O-T Fagbenle (Looking) credevo invece fosse secondario in ogni senso finché nell’episodio The Other Side non mi ha sorpreso e commosso. Con lui ci salutiamo fino alla seconda stagione!
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