È solo la fine del mondo - CineFatti, Recensione

È solo la fine del mondo (Xavier Dolan, 2016)

La misteriosa fiamma di È solo la fine del mondo – di Elvira Del Guercio.

Xavier Dolan scrive la sua sesta lettera al padre ed  È solo la fine del mondo (premio della giuria a Cannes 2016 e candidato a rappresentare il Canada per l’Oscar 2017 al miglior film straniero) sublima il dolce – e doloroso – naufragare nelle chimere dell’esistenza di Louis/Gaspard Ulliel e i suoi familiari.

Voler ritornare negli inospitali anfratti di un passato ormai dissoltosi nell’opacità dei ricordi è l’ultimo desiderio di Louis, scrittore malato terminale e in procinto di riavvicinarsi alla sua famiglia dopo anni di assenza.

Dodici anni di altrove e un vuoto incolmabile separano il protagonista dalla sua eccentrica madre/Nathalie Baye (Laurence Anyways), dalla sorella Suzanne/Léa Seydoux e, soprattutto, dal fratello Antoine/Vincent Cassel: una figura così brutalmente limpida da risultare la psicologia più complessa e articolata del film.

Memoria e (è) vita

Come in Tom à la ferme, c’è un’infranta voce fuori campo – in questo caso del protagonista – che fa da prologo alla pellicola, dichiarando senza reticenze la più indicibile delle verità. È soltanto, quindi, l’avvicinarsi della fine la risposta al motivo per cui Louis decide di tornare a casa.

In altre parole: voler provare, per l’ultima volta, l’illusione d’esistere. Louis ha aperto gli occhi dopo un coma di dodici anni e ora, nella caducità di una breve giornata – perché questo è il tempo che la morte gli concede – dovrà redimere la sua lontananza e recuperare ricordi che si vivificano grazie all’esperienza concreta.

E ciò emerge nella sua incompresa volontà di tornare nella casa vecchia, per far sì che l’epifania della memoria si materializzi alla vista e al tocco degli oggetti più vari e indistinti (o anche all’ascolto di improbabili canzoni) facenti parte del patrimonio di vestigia che l’assordante rumore del tempo gli impone di recuperare.

L’eloquenza del non detto

La sceneggiatura si scarnifica  in confronto a quanto viene detto e “urlato” dagli sguardi dei personaggi. Disperazione, paure e insicurezze vengono sviscerate da una teatralità delicata e quanto mai insolita, che si realizza non tanto nell’intensità delle voci o dei gesti, quanto nell’espressività dei volti silenziosi.

E in questo risulta poetica quasi fino alle lacrime l’interpretazione che Marion Cotillard fa della timida moglie di Antoine. C’è, infatti, un momento di È solo la fine del mondo in cui il divenire si arresta e i confini spazio temporali si concentrano attorno allo scambio di sguardi tra lei e Louis, forse il momento in cui quell’indicibile verità viene pronunciata.

Supplica a mia madre (tra Pasolini e Dolan)

 

Personaggi dalla psiche spezzata e vissuti tormentati: è su questi temi che la riflessione di Dolan si concentra senza dimenticare l’amore viscerale, unico e quasi patologico nei confronti della figura della madre.

Enigmatica e controversa, la madre, nei film di Dolan, è il centro del cosmo tutto come se in essa, perciò, si potessero dispiegare tutti i segreti dell’universo.

[…] Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù […]

Pier Paolo Pasolini

 

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