Shine: quando il talento brilla – di Francesca Fichera.
Cosa può fare il senso di colpa? Tantissimo, troppo. E può disfare in egual quantità. Lo spiega bene la vita di David Helfgott, pianista australiano di fama mondiale, e anche Shine, il film che s’impegna a raccontarla.
Non staremo qui a dilungarci più del dovuto sul lavoro biografico di Scott Hicks che fruttò un meritatissimo Oscar all’attore Geoffrey Rush (dall’Australia proprio come il suo personaggio), brillante in senso stretto e lato, quasi ex aequo con l’alter ego giovanile interpretato da Noah Taylor: Shine, com’è giusto che sia, è una pellicola vista e rivista, citata, conosciuta e apprezzata da moltissimi.
Ma noi comunque ci teniamo a spendere una manciata di parole per convincere chi non ha ancora visto questo biopic a lasciarsene affascinare. Oltre che per la totale trasformazione degli interpreti principali, che coinvolge e trascina lo spettatore fino a prenderlo dal bavero, anche e soprattutto in virtù della sua scrittura, passionale e insieme priva di eccessi – se si escludono quelle poche scene che la regia ha scelto di coniugare al ralenti, fra cui il momento “cult” in cui Helfgott/Rush salta sulle molle in giardino, mezzo nudo, ascoltando Vivaldi.
E poi sì, c’è la musica: la classica “cosa sotto il naso”, così evidente da rischiare di passare paradossalmente in secondo piano rispetto alla tremenda vicenda personale dell’artista (secondo Shine dominata da una figura paterna dispotica, in altre versioni oggetto di smentita), spazia da Chopin a Listz, da Beethoven a Paganini e, appunto, Vivaldi, fino a quel Terzo concerto per pianoforte di Rachmaninov che traduce l’ossessione di una vita.
Perché Shine è prima di tutto questo: la descrizione di quello spazio piccolissimo che separa l’esercizio dalla mania, il desiderio dalla sete, l’amore dal baratro. E la storia di chi, per volere altrui ma anche a causa del proprio dono maledetto, ha attraversato quello spazio. Pagando una brevissima alba con una lunghissima notte.