Paradise, un dramma femminista attacca la società iraniana con la bellezza delle immagini – di Victor Musetti.
Interessante film prodotto da Yousuf Panahi, fratello di Jafar, in concorso all’ultimo festival di Locarno, Paradise è l’opera prima dell’iraniano Sina Ataeian Dena. Girato, un po’ come Taxi Teheran, in condizioni di semi clandestinità per le strade della città (nei titoli di coda la produzione si scusa con le persone che potrebbero essere nel film senza saperlo), è un film femminista nell’accezione più estrema del termine: il punto di vista è quello delle donne, si vedono solo donne e gli uomini, quando vengono ripresi, rimangono sempre ai margini, dipinti perlopiù come disadattati, frustrati o violenti.
Il film segue la storia di Hanieh, una giovane ragazza musulmana che vive con la sorella e il cognato in un appartamento a Teheran. Per recarsi al lavoro – insegna in una scuola elementare – deve intraprendere ogni giorno dei lunghissimi viaggi in autobus e taxi. Per questo sta cercando in tutti i modi di farsi trasferire in centro città, così da avere un po’ più di tempo per sé stessa. La burocrazia però sembra insormontabile, per questo Hanieh continua a lavorare in una situazione sempre più ingestibile. Alcune bambine della sua scuola infatti sono state date per disperse e, nel frattempo, un uomo misterioso le chiede di sposarlo.
Ataeian Dena decide di farci vivere la vita monotona e ripetitiva di una persona come tante, sottomessa al sistema, alle leggi (anche religiose) e alla burocrazia, perché obbligata dalla propria condizione economica. Paradise quindi non ha una struttura classica, ma è piuttosto un susseguirsi di immagini, di inquadrature fisse che ci illustrano un mondo statico, dove tutti vivono normalmente, ma entro certi limiti insormontabili, una sorta di gabbia a cielo aperto in cui Hanieh vive, come in una catena di montaggio, alla stregua di un fantasma che ricorda molto la vampiressa iraniana di A Girl Walks Home Alone at Night, nel suo essere un’osservatrice in perenne contemplazione di ciò che ha intorno, senza giudizi o condanne. La città invece, enorme e rumorosa, prosegue al suo ritmo di sempre.
Film di grande condanna della società iraniana e delle imposizioni religiose che vengono fatte alle sue bambine sin da molto piccole (grande spazio infatti è dedicato alle scene ambientate nella scuola), Paradise può risultare ai nostri occhi come un film estremamente fantasioso. È talmente bravo infatti Ataeian Dena a mettere in scena il suo mondo che si fa spesso fatica a capire dove stia il limite tra realtà e finzione. Bellissime in questo senso sono tutte le scene di massa con le bambine, cui viene imposto di non utilizzare cosmetici e a cui vengono date continuamente indicazioni precise sull’uso dello Hijab.
Ma sarebbe riduttivo vedere Paradise solo come un film di condanna del fondamentalismo religioso. A differenza infatti di quanto faceva Sissako in Timbuktu, Ataeian Dena per fortuna è interessata a raccontarci qualcosa di vero attraverso dei personaggi realistici e una visione appassionata e affascinata da ciò che ha intorno. Quelli fotografati da Payamsadeghi, direttore della fotografia, sono infatti dei quadri in movimenti di incredibile bellezza che da soli valgono la visione del film. Forse il suo più grande limite è quello di puntare più sul non detto che su una sceneggiatura chiara e accessibile a tutti. È il vizio più grande di un certo cinema d’autore, quello di voler comunicare un messaggio senza sforzarsi di farlo in maniera chiara e comprensibile per tutti. Lo vedranno in pochi e di questi ancora meno apprezzeranno. Ma il film è affascinante e il suo valore, seppur modesto, è indiscutibile.