Shelley - CineFatti

Shelley (Ali Abbasi, 2016)

L’orrore prevedibile di Shelley – di Victor Musetti.

Direttamente dalla sezione Panorama dell’ultimo Festival di Berlino arriva Shelley, strano horror d’atmosfera danese diretto dal regista iraniano Ali Abbasi. Una sorta di Rosemary’s Baby scandinavo che nel suo voler turbare a tutti i costi ricorda molto l’ultimo, prolisso Von Trier. Tutto girato con la macchina a mano, personaggi ambigui e glaciali, sadismi vari compiuti su uomini, animali e bambini. Il tutto ovviamente confezionato con estrema cura. Ma andiamo con ordine.

Siamo nella Danimarca rurale. Elena (Cosmina Stratan) è una giovane ragazza madre di Bucarest che per un po’ di tempo andrà a lavorare come custode nella casa sul lago di Kaspar e Elisa, una strana coppia che vive in assenza di elettricità e di acqua corrente. Elena è una ragazza semplice, di poche pretese, se non quella di mettere da parte abbastanza soldi per poter pagare un appartamento a suo figlio in Romania. Elisa invece ha sempre desiderato un figlio, ma ad ogni tentativo le cose sono finte male. Un giorno propone ad Elena una maternità surrogata in cambio di denaro. Lei finisce per accettare la proposta, ma portare in grembo questo bambino si rivela ben presto un’impresa tutt’altro che facile.

Non si può svelare molto di più sulla trama del film, che gioca moltissimo sull’ambiguità e sul mistero dei suoi avvenimenti. Ma nonostante l’assunto iniziale così intrigante, Ali Abbasi, che ha co-scritto il film insieme a Maren Louise Käehne, rifiuta di dare alla sua sceneggiatura una struttura ben definita, con il risultato che per la maggior parte del film non succede quasi niente. Si tratta piuttosto di una serie di scenette che illustrano la vita quotidiana di queste persone. Importante in questo senso è il ruolo giocato dal lago e dalla natura circostante, vera e propria presenza dal grandissimo impatto visivo che contribuisce a colorare il film con un’atmosfera surreale e ad accentuare il forte senso di isolamento dei suoi personaggi.

La maternità di Elena, interpretata dalla bravissima Cosmina Stratan già vincitrice della miglior interpretazione a Cannes nel 2012 con Oltre le colline di Mungiu, la rende a poco a poco sempre più debole e depressa. E Abbasi ci fa vivere questo decadimento fisico e mentale instaurando un’atmosfera sempre più angosciante, giocando molto con sogni, visioni e allucinazioni. Oltre a questo Shelley non nasconde la sua natura di horror e, nonostante la confezione autoriale, punta in modo massiccio sul sound design anche, in certi casi, per provocare qualche scossone. Ma quest’atmosfera che si percepisce inizialmente come una tensione crescente, finisce per rimanere tale e quale lungo tutta la durata del film, senza esplodere mai.

Il risultato è che ci si annoia parecchio. E quando finalmente Abbasi cerca di concludere la storia movimentandola con un paio di scene scioccanti, è fondamentalmente troppo tardi per sentirsi ancora veramente implicati con le vicende dei personaggi. Una scena in particolare, che non si può citare, è ormai un cliché talmente abusato dal cinema d’autore festivaliero da far venire la nausea. Solo nell’ultimo anno la sensazione è di aver visto questa scena in almeno altri 10 film del genere. E la cosa non può che risultare irritante. Shelley comunque ha già i suoi estimatori e non è di certo sconsigliabile a prescindere. È un cinema sensoriale, affascinante, per chi ama farsi trasportare dalle emozioni, anche con un certo masochismo. Ma se siete in cerca di contenuti e di una bella messa in scena volgete lo sguardo altrove.

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