Torneranno i prati, è tornato il buon cinema.
La vita dei soldati alterna lunghe ed interminabili attese, che accentuano la paura, ad improvvisi accadimenti imprevedibili.
La pace della montagna diventa un luogo dove si muore.
Tutti i fatti narrati nel film sono realmente accaduti e appartengono alla memoria collettiva.
Altopiano d’Asiago, guerra del ’15-’18, fronte Nord-Est: la neve si accumula sui rami degli alberi come sulle soglie delle trincee. C’è chi trema per il freddo, chi per la febbre, chi per la paura; o tutte e tre le cose insieme. E intanto ci sono i dettagli: gli oggetti, i suoni, gli odori. L’intimità della guerra.
Ermanno Olmi vi entra dentro restituendo l’umanità, vera e nascosta, delle piccole cose. Dei mormorii, dei fremiti, dei suicidi atterriti, delle chiacchiere a bassa voce mentre la luna è alta, delle ferite e dei morti obliati, delle foto ingiallite rimaste a marcire sotto terra. A cent’anni dal primo conflitto mondiale, il suo Torneranno i prati è un canto levato contro la brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai, il mostro che si agita nella stanza affianco.
Per difendersi è bene parlarne. È bene raccontare la guerra attraverso le parole e gli sguardi di chi l’ha vissuta perché, poi, i prati tornano sempre a coprire tutto. Così Olmi riscrive Federico De Roberto, con La paura (1921), dedicandolo al padre che nel 15-18 fu soldato, e realizzando una storia in immagini che è anche un’immersione indistinta negli occhi dei protagonisti: quegli uomini deboli – uomini contro, per come li rappresentò efficacemente Franco Rosi – stanchi e impauriti, stretti nella pietra e fra le assi delle loro-case prigione, ai quali ogni sbaglio costa una vita, ogni rumore un terrore, ogni esitazione una sconfitta.
Uomini che sembra non posseggano un nome al di fuori del proprio grado (rimane impresso soprattutto il maggiore di Claudio Santamaria) e i cui volti scompaiono nell’ombra e nella neve (fotografia di Fabio Olmi) così come sono apparsi: dicendo, facendo, fino a dare voce ai più profondi pensieri di quel mondo sommerso in un vibrante monologo a tu per tu con la macchina da presa.
In Torneranno i prati si sente e si vede ogni cosa a parte il nemico, e le singole parti di ciascun quadro corrispondono ai versi di una poesia cantata, melanconica e dolente, di una canzone contro la barbarie intonata da chi sa bene che è un privilegio il solo fatto di poter rivolgersi al cielo notturno con il cuore contento. Non a caso, spicca fra le figure di soldato – solo all’apparenza uguali ma tutte, più o meno, ingenue – quella del napoletano, che del lirismo di Olmi rappresenta il simbolo più chiaro e limpido: è la versione popolare del poeta quasimodiano reso muto dall’ostinato e violento ripetersi della Storia, il cui silenzio oscilla lieve al triste vento dopo aver allietato, per un breve momento, la lunga attesa lunare dietro il filo spinato.
Un raggio di luce abbagliante in un film che a sua volta illumina il cinema, italiano e mondiale.
Francesca Fichera
Ci sono film che raccontano senza che la trama abbia nessuna importanza perché raccontano attraverso le emozioni che suscitato, fotogramma dopo fotogramma. Questo di Olmi, per me, è così. Bellezza pura.
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È proprio come dici: è un flusso di sensazioni, stimoli, impressioni, che a poco a poco scioglie il cuore (come la neve, si direbbe). :)
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