I vampiri di The Addiction sono fra noi.
Il male è un vampiro che morde il tuo collo.
Ne senti il dolore, e allora scappi, e dici mai più, ma ti rimane qualcosa di nero nel sangue,
la traccia del suo sapore proibito.
Isabella Santacroce
Una macchia umana contro il grigio e il bianco del mondo: una macchia che si chiama Kathleen, che osserva altre macchie, candide e indistinte, figlie morte dell’ennesimo sterminio, testimonianza cadavere di una fra mille crudeltà, goccia nell’oceano. Kathleen, sciatteria anni Novanta e viso spigoloso di Lili Taylor, studia filosofia – “il balsamo di ogni avversità” – e investiga il Male e le sue manifestazioni attraverso la membrana sottile che separa (o forse unisce) umano e mostruoso. Finché non incontra fisicamente quest’ultimo, in una di quelle notti newyorkesi rese opache dal vapore dei tombini, e realizza che quella membrana, in realtà, non è mai esistita, che disumanità e umanità si contengono a vicenda.
A pochi anni dal suo capolavoro Il cattivo tenente, Abel Ferrara firma un’altra opera di eccezionale valore. Sporca come quello che mette in scena; profonda come gli anfratti concettuali esplorati dai filosofi che cita (e la sceneggiatura di Nicholas St. John serve benissimo allo scopo); lirica, in un certo modo, nel percorrere tutte le possibili diramazioni metaforiche della narrazione, verso il perfetto compimento conclusivo.
Da ex-tossico, Ferrara utilizza la propria esperienza per accostare la malignità, la sua arcinota banalità ma, soprattutto, il suo fascino, alla droga: il primo assaggio, il primo morso del Male, fa sì che la vittima ne diventi dipendente fino a essere carnefice di se stessa. I vampiri di The Addiction sono infatti sia tradizionali, ligi all’iconografia del succhiasangue, che completamente nuovi, come dimostra la bravissima Taylor nel corso della sua trasformazione, in tutto e per tutto assimilabile a una crisi di astinenza, per sedare la quale il plasma viene iniettato e non bevuto.
Tuttavia parlare di mutazione è corretto solo in parte, perché il film di Ferrara sta a dire precisamente una cosa: che
non siamo peccatori perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo peccatori. In termini più accessibili: non siamo malvagi per via del Male che facciamo, ma facciamo del Male perché siamo malvagi.
La cattiveria, per com’è intesa da The Addiction, risulta essere una dimensione che abitiamo sin dalla nascita per lo stesso fatto di essere umani. Capirlo, accettarlo, conviverci, ottiene lo stesso effetto del sole su una creatura della notte: brucia fino a uccidere. E l’opera di Ferrara ancora una volta (una delle ultime) apre gli occhi di fronte a una luce insopportabile. Ma vera e bellissima.
Francesca Fichera