Still Alice consegna l’Oscar a Julianne Moore.
Still Alice non aspetta e non fa aspettare per mostrare il suo cuore. Prima del dramma, l’idillio è breve. Un quadretto di scontata armonia familiare succeduto dai titoli di testa e da una donna – la stessa di pochi minuti prima – che attraversa un corridoio con passo elegante e sicuro: è Alice Howland, ha il volto e la chioma rossa di Julianne Moore, e sta per cadere casualmente nel baratro.
Tutto ha inizio con una dimenticanza, una parola sfuggita nel corso di un convegno; proprio a lei, che sul linguaggio ha costruito una (brillante) carriera di docente universitaria alla Columbia. Ma del resto sembra un lapsus, uno qualsiasi di quei vuoti di memoria che capitano a chi pretende troppo da se stesso, un attimo di confusione da attribuire allo stress.
Sembra, appunto. Perché pochi giorni più tardi, durante il suo jogging, Alice si ferma un secondo e scopre di non riconoscere il luogo dove sta sostando: una sensazione che il doppio sguardo di Richard Glatzer e Wash Westmoreland restituisce con un letterale turbine di immagini.
L’irreversibilità
Si entra così nel pieno del calvario di Alice, narrato sulla carta da Lisa Genova nel da noi tradotto Perdersi (Edizioni Piemme, serie Pickwick): la diagnosi, più temuta di un cancro, è Alzheimer precoce ereditario. Rarissimo e, come tristemente risaputo, irreversibile.
La donna ancora cosciente di sé (forse uno dei lati più atroci della malattia) lo realizza nel bel mezzo della notte, disperandosi col marito John (un Alec Baldwin mono-espressivo) per ciò che il morbo sta riuscendo a cancellare: tutta una vita. D’altra parte a poco servono le medicine, e rema contro anche la giovane età, insieme (ironia della sorte) con una certa complessità della mente di Alice dovuta all’alto livello della sua istruzione, per cui il decorso della patologia procede con una rapidità fuori dalla norma.
Verità indelebili
A suo modo non stupisce la scelta di Glatzer, affetto da SLA, del portare sullo schermo questa storia, dramma – vissuto anche dall’esterno ma soprattutto dall’interno – che qualsivoglia tipo di malattia degenerativa comporta, ossia: la consapevolezza di non tornare mai più come prima e – fatto altrettanto e forse anche più terribile – il non poter fare niente per impedirlo.
Una verità che è già schiacciante nel mondo reale, e che la narrativa può soltanto provare a rappresentare senza facili incursioni nella retorica. E quest’ultima in Still Alice è pur presente – la canonica scena del discorso strappalacrime probabilmente ve lo confermerà – però ben si alterna a momenti di pura raffinatezza registica, in un amalgama abbastanza incoerente che fa di questo film una sorta di prodotto televisivo superiore alla media.
Julianne Moore e un altro paio di ragioni
Di sicuro, abbiamo due valide ragioni per dare una chance a Still Alice al di là della realtà che mette in scena, e la prima vede il parere unanime di critica e pubblico: è la Moore. Discreta e vibrante, come pure in The Kids Are All Right, restituisce in maniera realistica il ritratto di una donna qualunque colta da una tragedia senza pari.
La sua interpretazione, per quanto lungi dall’essere la migliore della sua vita, spicca decisamente fra quelle del disastroso cast del film (dopo Baldwin abbiamo Kristen Stewart… aiuto!), quasi a pari merito con la Marion Cotillard di Due giorni, una notte. E dunque merita il premio che con ogni probabilità riuscirà a vincere. Se non altro per quel finale – il secondo dei due “validi motivi” – nel quale retorica e difetti di adattamento vanno a sciogliersi – come i ricordi, si direbbe – e sia il regista che l’attrice ci regalano un guizzo di vera poesia. Con tutto ciò che rimane e un vecchio filmino destinato a sbiadire.
Francesca Fichera