Big Eyes, piccoli attori e regia piatta.
Sembrava uno scherzo, il nuovo film di Tim Burton si sarebbe intitolato Big Eyes, un po’ come se Quentin Tarantino scegliesse di usare come titolo Sexy Feet. Lossessione di Burton sono sempre stati gli occhi, grandi e intensi, come quelli della sua (ex)compagna Helena Bonham Carter o delle altre sue protagoniste, Christina Ricci e Winona Ryder.
Non stupisce dunque la dichiarata passione del regista per l’artista Margaret Keane, a cui è dedicato il suo secondo biopic a 20 anni dal primo e stupendo Ed Wood, forse il suo capolavoro. Un collegamento capace di far accrescere l’hype per l’ultima pellicola di un regista ormai caduto in disgrazia, se non di fronte al botteghino.
Il fatidico incontro
La storia della Keane/Amy Adams è degna di un film. Fuggita da un matrimonio oppressivo, Margaret approda a North Beach, San Francisco, madre single senza un soldo, aiutata solo dalla sua genuina passione per l’arte. In uno dei suoi giorni a ritrarre i passanti in un parco, incontra Walter Keane/Christoph Waltz, logorroico e sdicente artista armato di bugie fino al collo, sufficienti a far cadere Margaret tra le sue braccia.
A matrimonio avvenuto, Walter scopre a malincuore che i quadri di Margaret destìno più interesse dei suoi e decide di non tenere la lingua a freno: riempie la testa di Margaret di menzogne e dichiara di essere l’unico autore di quei dipinti.
Christoph Waltz, gigione di professione
Malauguratamente il biopic di Margaret diventa il biopic di Walter Keane, personaggio reso più interessante sia dallo script che dalla regia, ma non dall’attore: Waltz ormai è fermo in un loop eterno, facile che sul set tutti i registi suoi superiori gli dicano soltanto: ”Ti ricordi Bastardi senza gloria? Ecco, fallo un’altra volta“.
Costretto a recitare la parte di Hans Landa in eterno, come la povera Margaret chiusa in soffitta a dipingere in solitudine all’insaputa del pubblico, di tanto in tanto sfuggito alla morsa (grazie Polanski), per poi ricadere nel baratro.
Un’irrefrenabile gesticolio, ammicca dieci volte al minuto, e se questo può andar bene nell’esagerazione tarantiniana, è fuori luogo in una storia vera. Stanca, martella il pubblico senza pietà con un’interpretazione a lungo andare, dispiace dirlo, piatta.
Un Burton inesistente
Mentre Burton appare assente dal set, neanche lo si riconosce, a rappresentarlo solo i suoi storici collaboratori. Abbiamo Colleen Atwood ai costumi, Danny Elfman alla colonna sonora e il recente acquisto (e che acquisto) alle luci, Bruno Delbonnel, all’opera in una replica dei colori di Big Fish.
Del gotico autore di Sleepy Hollow, neanche le ossa sono rimaste, salgono a galla solo quando traspare il fascino onirico per alcuni brevissimi istanti. L’amo lanciato dallo spettatore torna a bocca asciutta, Burton è fuori da Big Eyes, un’opera mediocre da cui non fuoriesce la passione del regista per Keane, soltanto una apatica visione di un tempo lontano. Pigra anche la voce narrante, presente qua e là, senza un nome, senza un’origine, parole gettate per spiegare laddove non cè bisogno di una spiegazione.
Fausto Vernazzani
Voto: 2/5