Frank

Frank (Lenny Abrahamson, 2014)

Frank Loves You All

Un ragazzo, qualsiasi sia di fatto che di nome (si chiama Jon), scrive canzoni basandosi su ciò che vede cantandosele letteralmente in testa. Quanti di noi non l’hanno fatto quando si sono trovati a scrivere qualcosa: perdersi nei meandri mentali del proprio narcisismo?

Ecco dove sta l’assoluto ed eccezionale splendore dei primi minuti di Frank, il film di Lenny Abrahamson che ha messo alla prova il talento di Michael Fassbender coprendone il volto con  una testa finta.

Narcisi in crisi

Simbolo personificato dell’eccentricità propria di una certa frangia di artisti (in questo caso della sfera musicale) oltre che di quel “rapporto complesso tra instabilità mentale e talento artistico, relazione né sufficiente né necessaria, benché spesso presente” (Emanuele Sacchi), Frank è il frontman di una band dal nome impronunciabile, gli  Soronprfbs, i cui membri soffrono più o meno tutti di un particolare disturbo, al punto da rendere un’impresa non soltanto la normale convivenza ma la stessa sintonia creativa fra le parti.

Durante una delle numerose crisi – il tentato suicidio del tastierista, lo Scoot McNairy di MonstersArgo – subentra come sostituto il Jon di cui sopra – un Domhnall Gleeson molto valido – ma il concerto salta a causa di una lite scatenata dall’isterica Clara di Maggie Gyllenhaal, e l’avventura sembra essere finita ancor prima del suo inizio.

Una bella sberla di ironia

Così naturalmente non è: Jon viene richiamato e si lancia in un’esperienza bizzarra almeno quanto è il gruppo che gliel’ha proposta, ma che è oggetto di racconto – e motivo di vanto – sui suoi profili social, dove prende nota e hashtagga in maniera così ossessiva da diventare “qualcuno che vuole sbandierare il proprio entusiasmo anziché viverlo soltanto” (Roberto Dragone).

Si è tanto scritto della fama ai tempi dei social network e dei morti da essa generati, e un film come Frank pare faccia l’ennesimo punto della situazione arricchendolo con il contributo di una prospettiva nuova: una visione surreale e tragicomica arricchita da punte di grottesco, in cui il mondo messo sotto la lente si prende così sul serio da meritarsi una bella sberla di ironia.

Ed è infatti con il potere della risata che Abrahamson, ma soprattutto la sceneggiatura puntuale di Jon Ronson, dichiaratamente ispirata e dedicata alla figura artistica di Frank Sidebottom/Chris Sievey, trascinano il pubblico nel bel mezzo di una storia comica sulla tragicità della mancanza di accettazione: da parte di sé, degli altri, di ciò che non si può essere.

Tristezza fa rima con lentezza

Un racconto che inquadra da lontano i suoi protagonisti avvicinandovisi solamente quando è il momento di smascherarli, e che in questo modo sovrappone il reale alla finzione ottenendo il pro della sincerità e il contro di una netta perdita di ritmo fra il primo e il secondo tempo; perché è risaputo che le cose, quando sono un po’ più tristi, scorrono più lentamente.

Ma Frank è un film sul darsi una possibilità a cui va data assolutamente una possibilità. Se non altro, per farsi il dono di un Fassbender in stato di grazia che, dopo la voce del sistema operativo della Johannson in Lei di Spike Jonze, ha saputo riscrivere le regole della recitazione cinematografica con la sola forza dei suoi arti superiori.

Francesca Fichera

Voto: 4/5 

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