Se si alza il vento della guerra, i sogni rispondono.
Da un verso di Paul Valéry – «si alza il vento, bisogna tentare di vivere» – Hayao Miyazaki va a capo e continua a scrivere. Ancora una volta, prima di dedicarsi al verde e alla vita che ha sempre osannato nelle sue opere.
Si alza il vento è quindi il nome del suo addio alla regia, di un saluto che significa “non ci sarà nulla di nuovo” ma che conserva in eterno tutto ciò che è stato già fatto. Con l’aiuto di un commiato finale che è sia sintesi del precedente sia fondamentale aggiunta, ultima frase necessaria.
Nel blu dipinto di blu
Miyazaki parla ancora di sogni e di come questi, insieme con l’amore che li nutre e li accompagna, rendono gli uomini capaci di volare.
Da Nausicaä della valle del vento (1984), secondo lungometraggio da regista a seguito dei successi televisivi di Lupin III e relativo spin-off cinematografico, fino ai più recenti Porco rosso (1992) e Il castello errante di Howl (2004), il volo rimane il primo motore mobile dei racconti dell’artista giapponese.
In questo in particolare il vento è una risorsa che può trasformarsi in pericolo; un’onda da cavalcare con la consapevolezza che potrebbe ribaltare tutto da un momento all’altro.
Volare e vivere sono ancora una volta sinonimi: sono l’arte di rimanere in equilibrio, di sfruttare le forze naturali nel loro pieno rispetto, proprio come accade con la portanza degli aerei, quegli «splendidi sogni» che la guerra trasformerà in maledizioni.
Un lieto fine per Icaro
Questo però il giovane Jiro non lo sa; non ancora almeno. Quando osserva il cielo dal suo tetto o dal suo letto, perché «a guardare le cose lontane si migliora la vista», sa solo che vuole afferrare il suo sogno: diventare un progettista di aeroplani bravo e creativo come fu l’italiano Giovanni Battista Caproni.
In un gioco – estremamente calibrato – di passaggi sottili dalla realtà immaginata a quella vissuta, Miyazaki fa il primo miracolo: ci mostra un eroe giovanissimo che accetta un proprio limite al punto da rinunciare a ciò a cui anela di più. Che fa un sogno più piccolo per essere certo di poterlo ingrandire.
La prima, straordinaria, quasi incredibile lezione di umiltà – in barba a tutti i falsi orientalismi new age che vorrebbero tutti capaci di tutto – è spedita agli attoniti destinatari in sordina con la semplicità fiabesca che distingue da sempre l’universo colorato di Miyazaki.
Il passato è una zavorra
Ma c’è molto, molto di più, e Si alza il vento lo mostra pian piano, senza affrettare né sottolineare, godendo (e facendo godere) degli strabilianti paesaggi ad acquarello, dei cappelli galeotti che volando portano incontri amorosi (Nahoko, l’amore della vita di Jiro) e colmi di serendipità, del lungo e discontinuo viaggio (o volo?) di un sogno.
Il sogno di Jiro, l’ingegnere aeronautico più ambito dalle aziende nazionali e internazionali, l’enfant prodige dell’aviazione nipponica, l’individuo fedele a se stesso e alla patria che in nome degli ideali universali finisce col sacrificare il particolare del suo cuore, anche e soprattutto inconsapevolmente.
Perché come dice il misterioso agente tedesco Carstorp – doppiato da Werner Herzog per la versione anglofona – nel cuore del rifugio nascosto dagli alberi delle colline, «sulla montagna incantata [e cita Thomas Mann] si dimentica tutto: la guerra con la Cina» e tutti gli altri orrori di cui il Giappone si è reso colpevole, inclusi quelli futuri: «la Germania scoppierà, il Giappone scoppierà, scoppieranno tutti».
Così, inaspettatamente, Miyazaki fa ammenda per le pesanti colpe del passato della sua nazione. E il suo chiedere perdono, sincero a tal punto da essere disarmante, si fa strada come un veleno in chi guarda, puntando il dito contro l’ostinato istinto alla guerra che nessuna Storia sembra in grado di sradicare dall’animo degli uomini.
Nei confronti di quest’ultimo Si alza il vento si erge come pacifico ed elegantissimo atto d’accusa: un film che è una mastodontica visione del mondo, di quello che è stato e di quello che potrebbe essere – e che molto probabilmente sarà – ma, soprattutto, di tutta la bellezza che rischiamo di perdere e che la presunzione ci strappa già dalle mani.
Francesca Fichera
Voto: 4.5/5