Piccoli affari sporchi, una storia di dolore, immigrazione e dolcezza.
Un film sul lavoro, il primo Maggio viene spontaneo cercare di pensare a un titolo a tema: perché allora Piccoli affari sporchi di Stephen Frears?
Ci sono in realtà tanti motivi. Per cominciare quelli puramente cinematografici, il regista Stephen Frears ha avuto una sua candidatura agli Oscar per Philomena proprio questanno, così anche Chiwetel Ejiofor grazie all’interpretazione magnifica in 12 anni schiavo ed oggi nelle sale esce il successo veneziano Locke dello sceneggiatore Steven Knight.
Per Knight fu la prima esperienza cinematografica, prima della fama grazie a David Cronenberg e La promessa dell’assassino, dopo un paio di lavori in televisione si unì allo spirito di My Beautiful Laundrette del regista inglese.
Scrisse di gente reale, corpi incontrati per strada, a volte invisibili. In un’epoca come la nostra in cui gran parte degli italiani s’imbarca per raggiungere terre più o meno lontane pur di trovare un lavoro, ci si identifica molto nei bellissimi personaggi di Piccoli affari sporchi, splendidi caratteri in un ambiente la Londra dei primi anni Duemila affascinante, ma ostile.
La vita dei protagonisti ruota intorno a un albergo, dove la notte problemi e soluzioni si incrociano: Okwe/Ejiofor di giorno è tassista e di notte portinaio, Senay/Audrey Tatou lavora come donna delle pulizie non registrata perché il permesso di soggiorno le impedisce di lavorare, Juliette/Sophie Okonedo è una prostituta che ha fatto dell’albergo la sua base, Juan/Sergi Lopez ne è invece lo spietato proprietario che gestisce un traffico clandestino di organi sfruttando le necessità finanziarie e burocratiche degli immigrati.
Il passato da chirurgo di Okwe è il secondo elemento chiave di Piccoli affari sporchi, il fattore scatenante da cui i primi guai iniziano a mettere in moto la macchina del cinema e l’incastro di conflitti e relazioni tra un personaggio e l’altro.
Juan, cattivo prima ancora di vestire i panni del Capitano ne Il labirinto del Fauno, tenta in ogni modo di convincere Okwe a lavorare per lui come chirurgo, Senay è braccata dall’anti-immigrazione e trova nel collega un valido aiuto e forse anche qualcosa in più. A circondarli è il lavoro, un grosso insieme che rappresenta il sogno, la libertà.
Per Okwe è il ritorno in Nigeria da sua figlia, per Senay una fuga negli Stati Uniti a New York, sotto un nome italiano, ben lontano dalla sua origine turca. Il desiderio di riunirsi a se stessi li avvicina anche in un’ambizione separata da migliaia di chilometri.
L’evidenza della loro distanza si scontra con lo strofinare le proprie vite nei luoghi degradanti dove sono costretti a vivere e lavorare, Knight e Frears orchestrano uno spazio ch’è personaggio a sua volta, grande interprete come ogni singolo attore fino al sorprendente finale, un momento di dolcezza arricchito dalle parole e i suoni di Glass, Concrete and Stone di David Byrne.
Un istante in cui gli sguardi si incrociano, le labbra parlano senza emetter suoni e Piccoli affari sporchi termina lasciandoci con in bocca un sapore agrodolce.
Fausto Vernazzani
Voto: 4/5