Haven, andata e ritorno.
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Anche in Haven spicca un personaggio tipicamente alla King, lì, alla luce del sole, pronto per essere approfondito e [SPOILER] tolto di mezzo [FINE SPOILER] nel corso delle stagioni seconda e terza: il reverendo Driscoll, luogo figurato dell’attacco di King all’ipocrisia della Chiesa e a tutto ciò che di questa poco ha a che fare con la spiritualità e la religione.
A esso si affiancano, nel bene e nel male, le figure secondarie (ma allo stesso tempo determinanti) di Dwight – cui dà volto e corpo l’ex wrestler Adam Copeland – e Evi, ex moglie di Duke, introdotti nel corso di un’altra sequenza di episodi autonomi – uno dei quali standalone, cioè indipendente a tutti gli effetti, trasmesso in occasione dei festeggiamenti natalizi – che precedono quello che rappresenta l’apice di Haven, ossia il suo terzo capitolo.
Qui prendono forma in maniera definitiva ruoli e spessori di tutti i protagonisti della serie, che rivela un realismo quasi in contrasto con la tendenza finora dimostrata alla semplificazione, schematizzazione e stereotipizzazione – per certi versi tipiche del genere – degli intrecci narrativi.
In particolare colpisce il Duke di Balfour, ora contrapposto in maniera lampante all’eroe buono Nathan – quando in realtà la bontà è pregio di entrambi, sebbene in modo diverso. Ma anche Audrey non scherza: è nella terza stagione che il filo del suo passato – e di conseguenza del suo character – viene ripreso e srotolato con effetti (anche scenici) d’indubbia efficacia.
Gli sceneggiatori danno il meglio di sé, non solo nella produzione di plot avvincenti, che fanno da collante alla storia – o alle storie – principali; e neanche nell’esclusivo gioco di rimandi all’ipertesto costituito dall’opera omnia di Stephen King.
In quello che può essere considerato il percorso di Haven, il merito di chi ne ha scritto le tappe sta soprattutto nello stile: una scrittura profonda, dalle atmosfere palpabili, grazie alla quale la terza stagione può vantare episodi veramente degni di nota, fra cui spicca il candidato a migliore dell’intera serie: In balia delle maree, con un finale cupo e nebbioso commentato dalla musica di Enya; oltre a una sottotrama thriller – quella del bogdan killer – che nel suo piccolo riesce a inquietare non poco.
La terza parte di Haven insomma vi lascerà spesso con fiato sospeso e brividi addosso, fino alla fine. Purtroppo non può dirsi lo stesso della stagione successiva, la quarta, dove a nuovi personaggi si collegano sviluppi più complessi della trama principe, ma con il risultato di un garbuglio alla Lost nella sua fase peggiore – fatta eccezione di qualche momento indovinato. Segno che Haven molto probabilmente non andrà oltre la quinta parte. Se lo farà avrà commesso il grave errore di proseguire per dovere, trasferendo alla dimensione dell’intrattenimento e dell’emozione quella dell’automatismo. Il che, c’è da dire, è anche uno sbaglio molto comune.