Venere in pelliccia (Roman Polanski, 2013)

Venere in pelliccia: Emmanuelle Seigner sale sul palco.

Le Dieu du carnage ci ha lasciato spiazzati: chi dei quattro è il miglior attore nella versione cinematografica dell’opera teatrale della francese Yasmine Reza? In molti sarebbero pronti a mettere la mano sul fuoco per testimoniare a favore della performance dell’istrionico Christoph Waltz, altri puntano i piedi e urlano a gran voce il nome di Kate Winslet o Jodie Foster, gli ultimi si schierano invece per elencare i pro del buon John C. Reilly.

Questa è l’eredità di Carnage di Roman Polanski, un’eterna discussione che non fa che sottolineare come il cineasta sia capace di maneggiare gli attori tanto quanto la macchina da presa, dietro cui da anni si nasconde l’eccellente Pawel Edelman.

A due anni dall’uscita del breve Carnage, Polanski rientra al cinema con un nuovo adattamento, ancor più complesso del primo. Se il precedente faceva un salto dal teatro al cinema, Venere in pelliccia è il risultato di una triplice fermentazione.

Nasce come romanzo con Leopold von Sacher-Masoch, La Vénus à la fourrure, e cresce in teatro con David Ives, che ne riprende i temi e inventa la storia di uno scrittore e regista, Thomas Novachek, alla disperata ricerca di un’attrice capace di interpretare degnamente la protagonista dell’autore austriaco originale, Wanda von Dunayev.

Infine, anziano, Venere in pelliccia diventa un film per Polanski – cosceneggiato dallo stesso Ives – che non esita a dare a Vanda Jordan, un’improbabile attrice giunta per ultima alle audizioni, il volto di sua moglie Emmanuelle Seigner.

One Woman Show

Protagonista apparente è Mathieu Amalric, un ottimo e piccolo intellettuale pieno di sé e terrorizzato dal suo stesso ambiente, ma in realtà è l’ottima spalla per il one (wo)man show della Seigner.

La moglie di Polanski imbastisce un vero e proprio spettacolo fuori dagli schemi e da ogni aspettativa, dove lei è protagonista prima ancor di esser scelta per una parte di cui rapidamente diventa l’autrice, costringendo il povero Novachek a stringersi nell’umiliazione agognata da Severin von Kushemski, il protagonista maschile del libro di Von Sacher-Masoch.

Ridere a denti stretti

Con Carnage e Venere in pelliccia Polanski sembra avviarsi verso un cinema grottesco, fondato sulla forzatura di un sorriso di fronte alle scene piene di ridicolo, come le scenografie del teatro, rimasugli di un musical western ispirato a Ombre rosse di John Ford, in cui i protagonisti spinti a muoversi come dei veri e propri criceti – qualche volta lasciando trasparire i meccanismi di un teatro che non è cinema – al fine di scioccare.

La frase L’onnipotente lo punì e lo consegnò nelle mani di una donna, ripetuta da Novachek più d’una volta per descrivere il rapporto tra la von Dunayev e Von Kushemski, ispira un sottile divertimento, eppure l’uso che ne fa Polanski è la rivelazione di un’angoscia recondita risalente agli anni delle Baccanti che esplode nel finale (come già accadde con maggior pacatezza in Carnage) in un singolo fuoco d’artificio che grida al pessimismo.

Fausto Vernazzani
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