C’è chi dice NO.
«Se vuoi intimorire la gente, devi farle rivivere il passato»: una minaccia che rispetto a molti uomini, incapaci di serbare una memoria che vada oltre i loro ultimi sette giorni di vita, suona tanto vera quanto innaturale. Eppure nel 1988, anno in cui le ingenti pressioni internazionali costringono il governo Pinochet a indire un referendum, le ferite della dittatura sono aperte, fresche, sanguinanti. Più che ricordarle, le si vive ancora, se non ex novo. Ma è pure vero che al dolore ci si assuefa come al torpore, fino a che non v’è più linea di confine fra i due.
René Saavedra – nel film Gael García Bernal, monolitico e intenso, come del resto fu anche ne I diari della motocicletta – è fra coloro i quali hanno capito quanto sia importante svegliare il popolo cileno, quanto sia fondamentale non lasciarsi sfuggire l’occasione di lottare fino all’ultimo. Anche perché potrebbe essere l’ultima davvero.
È così che questa versione tenera, impacciata e melanconica di copywriter imbastisce la campagna con cui convincere un’intera nazione a dire No: al torpore, al dolore, alla prigionia. E poiché ciò a cui si aspira è il contrario di ciò che vige, anche il tipo di arma sarà di segno opposto: alla gravità e la crudeltà del Sì faranno contrasto l’ottimismo e la spontaneità del No, che diventerà la campagna dell’allegria, musicale e colorata come un arcobaleno.
Fotografia di un plebiscito
Tratto dall’opera teatrale Il plebiscito di Antonio Skármeta, a sua volta ispirata da eventi storici, No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín è una riproduzione verosimile di fatti realmente accaduti, dove la finzione del profilmico e la vivida realtà riportata dalle immagini di repertorio, grazie anche all’uso di una telecamera d’epoca, si amalgamano in maniera perfetta.
Il risultato è un discorso piano, pacato e discreto, privo di slanci emotivi o di sottolineature artificiose – in tal senso si pensi al sopravvalutato Milk di Gus Van Sant. E questa mancanza tuttavia, a lungo andare, si trasforma in limite consegnando a chi guarda una narrazione che preferisce parlare tutta d’un fiato anziché ricorrere a un maggior numero di punti e di virgole.
In No il maggior difetto è il ritmo, diluito fino allo stremo e in alcuni punti piatto come l’elettroecenfalo di un morto; e che pure non esclude una seconda possibilità per Larraín, per la naturalezza dello splendido René di Bernal e soprattutto per quel finale che sorprende come la scia di una cometa: realistico, amaro, consapevole di un futuro che non sarà mai più come prima perché segnato da un passato irremovibile.
Molto bene lo scritto. Resta da vedere il film
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Grazie! Facci sapere poi ;)
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