di Francesca Fichera.
La parola “guerra” e tutto ciò che vi sta dietro ci restano spesso in bocca, rischiando di tramutarsi in entità. Un po’ come le rivoluzioni. Uomini contro è un’opera – di Francesco Rosi, maestro nostrano della macchina da presa – che ristabilisce il nesso fra questi termini e il mondo reale restituendo loro un senso di concretezza, di tangibilità violenta ed efficace.
Protagonista è la Grande Guerra, simbolo della dimensione totalitaria dei conflitti fra uomini esplosa nel XX secolo. Uomini, appunto, più protagonisti di lei, dell’ente astratto dietro le cui quinte s’insinua l’occhio di Rosi, onde fotografare e poi mostrare una realtà spesso data per scontata: la brutalizzazione dell’essere umano, la caduta di qualsiasi forma di alleanza e di solidarietà, la dialettica crudele fra sommersi e salvati, oppressi e potenti. “Armiamoci e andate” sembra essere il motto di questi ultimi, banale come il Male e dalle conseguenze imponderabili – perché quando si pensa che l’immaginazione possa arrivare ovunque, talvolta la realtà sa essere più sorprendente. La finzione di Rosi è così perfetta da essere vera, è sguardo miracolosamente mimetizzato nella storia e nella Storia – quasi alla maniera di Truffaut – che enfatizza con l’artificio di un’inquadratura o una particolare angolazione solo a conclusione di una delle frasi di cui il racconto si compone.
Così avviene che la guerra di trincea degli italiani, dove il potere ha il volto di Alain Cuny e l’umanità quello di Gian Maria Volonté e – dopo – di Mark Frechette, venga descritta come una sequela di indicibili violenze, volti squartati, soldati uccisi per pietà, soldati uccisi per punizione, soldati usati come cavie di improbabili e ridicole strategie belliche; e che su questa sequenza cali il velo dell’onirico, del paradosso cui può giungere la vita vera a causa della cecità degli uomini, che se non hanno incubi li creano, e li fanno durare. In Uomini contro la morte arriva all’improvviso come un colpo in piena faccia, diventa danza grottesca di armature, interrompe corse verso una libertà dal candore impossibile, sorge dal fuoco amico e marca gli animi. Al punto che si grida “basta con questa guerra dei poveri” assieme al tenente Ottolenghi di Volonté, pur sapendo di rimanere, come lui, inascoltati, separati da un filo spinato invisibile che relega i privilegiati in stanze grandi e piene di argenteria, e la carne da macello nella terra sporca di sangue dei campi di battaglia, a distruggersi. Dietro la sagoma dei fucili e la fisicità martoriata dei corpi, si nasconde un’altra, doppia guerra: quella fra padroni e servi e quella dei servi con se stessi. E come in tutte le guerre, “non si è sicuri di niente”. Neanche della possibilità di una fine. Perché chi si oppone è destinato al silenzio, come l’urlo di Ottolenghi. Il coraggio, la virtù e la ribellione vengono rase al suolo, ridotte a cadaveri racchiusi da mura di cinta di cui non s’intravede la cima. Sono le vittime di un conflitto fantasma su cui Rosi fa scendere il suo magistrale sipario. Con un guizzo d’enfasi che accompagna il dubbio: nulla è certo, è vero, ma forse tutto questo durerà finché ci sarà l’uomo. Forse è proprio così.
uno dei miei film preferiti. La guerra come metafora dei rapporti di classe e forza,un film crudo e spietato.
Da far vedere nelle scuole eh
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Dovremmo fondare un cineforum itinerante, contro le mode, contro gli uomini che si combattono l’un l’altro in nome di quella malattia chiamata “potere”…
– Fran
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