Il Cavaliere Oscuro, il Ritorno (Christopher Nolan, 2012)

Il Cavaliere Oscuro: tutto è bene quel che finisce Bane – di Francesca Fichera e Fausto Vernazzani.

In ogni trilogia, tetralogia o serie che si rispetti, ciascuna parte ha il dovere di valere da sé pur tenendo conto degli altri elementi a cui s’aggrega. E di fronte al lento, lentissimo inizio del terzo capitolo scritto da Christopher Nolan e Jonathan Nolan intorno al magnetico personaggio di Batman, la domanda sorge spontanea, lecita e doppia: è Il Cavaliere Oscuro, il Ritorno un film in grado di reggere sulle sue sole gambe? E nel momento in cui s’appoggia ai precedenti episodi della trilogia (Batman BeginsThe Dark Knight) cade o tira avanti?

Sin dai primi momenti Il Cavaliere Oscuro, il Ritorno si propone come il gruppo di buoi che avrebbe dovuto trainare il carico della saga verso la gloria nella storia del cinema, ma la strada costruita da Nolan è troppo in pendenza, con cadute improvvise che rischiano di far crollare l’intera complessa struttura.

Gonfio di presunzione per il successo ottenuto, il regista britannico ha caricato l’inizio del suo termine di trilogia degli strascichi della bellezza del capolavoro da lui diretto in precedenza. Muove la macchina da presa senza mordente, senza la carica necessaria che ci vorrebbe per riagganciarsi ad una grande storia, espone una serie di sequenze montate con la stessa cura di uno studente negligente. Nolan si limita ad un riassunto che dovrebbe pompare lo spettatore, iniettandogli un gas che lo convinca di essere appena uscito dalla sala affianco, dove proiettavano The Dark Knight.

È da tenere in considerazione, però, anche la possibilità che Nolan intendesse rincarare la dose di adrenalina del suo Cavaliere Oscuro solo e soltanto a partire dal suo effettivo ritorno – ossia dopo la prima mezz’ora. Da quel momento in poi, come se Samantha di Vita da strega avesse strizzato il naso, (più o meno) tutti gli elementi del film, arrancando o correndo, ritornano ai loro posti: la sceneggiatura restituisce al pubblico le sue sentenze e frasi d’effetto, la nitidezza delle forme firmata dalle luci di Wally Pfister abbaglia, le adrenaliniche pulsazioni delle musiche di Hans Zimmer assordano, Lucius Fox (Morgan Freeman, sempre lui) fa sfoggio delle sue introvabili invenzioni dopo un esilarante ingresso alla Eduard Khil (per chi non ne serbasse memoria, ecco qui svelato l’arcano), Bruce Wayne (Christian Bale semper) si veste di tenebra intrattenendosi con la bella di turno – in questo caso due, e cioè l’esuberante (ma insignificante) Catwoman di Anne Hathaway insieme con l’algida Miranda di Marion Cotillard.

Molti altri dettagli, tuttavia, sembrano messi lì esclusivamente per ricordare che la messa è finita: la brutale liquidazione di Alfred (Michael Caine), le inquadrature studiate a tavolino e prive di qualsiasi slancio emotivo, la fretta di ritrarre, motivare e completare i profili dei personaggi… Tutti elementi che, più che correre verso la conclusione, pare addirittura la rincorrano.

Alla numerosa schiera s’aggiunge una pecca tutta Made in Italy: il doppiaggio. Non si vuole criticare, com’è solito, l’esistenza stessa del doppiaggio, ma gli organi che si occupano di ciò dovrebbero tenere conto di un sostantivo noto a tutti come “Professione”: fare il doppiatore è un lavoro, guadagnato con l’esperienza e una certa attitudine al mestiere. Filippo Timi non è un doppiatore e sentire la sua voce incollata sul possente corpo di Bane, è come sentire frasi di vendetta urlate dal profondo grigio del cestello di una lavatrice Whirlpool.

Accompagnati dalla tragedia Timi, la quale trova giustizia solo nei meme, lo spettatore è guidato dall’ottima performance di Tom Hardy, nei panni del villain di turno (interpretato  letteralmente con gli occhi) e il chissà-chi-è John Blake, alias Joseph Gordon-Levitt.

La Gotham di Nolan arriva dunque a reggersi sulle colonne recitative dei numerosi eccelsi interpreti, ognuno dei quali ha uno stile di ripresa personale che rende il tutto non prevedibile, bensì calca con fastidio il background d’ogni personaggio, spiegati con toppe e “movimenti” di seconda mano. Su di loro si regge la sceneggiatura, ma impotenti eseguono solo le battute loro date, che non sempre possono fare da riempitivo per dei buchi grandi quanto la prigione/pozzo infernale in cui viene o è stato gettato qualcuno di tanto in tanto.

Giunge così alla fine il Batman di Nolan, con le sue sorprese e le sue meraviglie, partito senza troppo entusiasmo, sviluppatosi tra le stelle e caduto poi infine nell’eccesso alla ricerca di una Vittoria mancata.

Il Cavaliere Oscuro, il ritorno (traduzioni corrette, queste sconosciute) casca giù di qualche piano rispetto al suo maestoso – nella qualità e non nella quantità – predecessore, ma nel suo genere, in mezzo ai suo fratelli blockbuster e comic-movie, spinge la trilogia verso le vette dell’arte cinematografica. Diciamo che dopo aver volato in alto senza troppi vuoti d’aria ci si aspettava un atterraggio migliore.

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