127 ore oltre l’orlo del precipizio
Per noi è solo il titolo di un film, per Aron Ralston furono un incubo: 127 ore è il tempo in cui rimase intrappolato dentro un canyon.
La trama del film di Danny Boyle, seguito al suo enorme successo globale con The Millionaire, finisce qui.
Non c’è nient’altro da spiegare, tutto ruota attorno al one man show di James Franco, un buon attore che di strada ne sta facendo e che il qui presente biopic spingerà di sicuro ancora più in alto, dove (si spera per lui) non ci sarà un burrone come per il personaggio da lui interpretato.
Me, Myself & I
Ovviamente qual è l’elemento più importante quando si parla di un film in cui un unico attore deve reggere tutto sulle proprie spalle? Trovargli qualcuno con cui parlare, altrimenti la pellicola tenderebbe ad annoiare (e neanche poco, ammettiamolo senza problemi).
Se Will Smith parlava con il cane (Io sono Leggenda), Sam Rockwell col robot Gertie (Moon) e Ryan Reynolds con una manica di incompetenti burocrati (Buried) Franco parla con se stesso mentre si riprende con la videocamera.
Abitudine da megalomane quella di fotografarsi e registrarsi che gli è valsa la possibilità di salvare almeno la sua sanità mentale, quando rimase incastrato nel Blue Canyon con un braccio schiacciato da un masso contro una parete rocciosa.
Una nuova speranza
Sarebbe forse spontaneo preoccuparsi per il protagonista ma, per come Danny Boyle ce lo presenta, Ralston non è una persona per cui fare il tifo, bensì un ragazzo egocentrico e troppo preso da sé, tanto che verrebbe quasi da dire che meritava una punizione.
Una punizione, per un carattere non esemplare, che resta però troppo grande. Col passare dei minuti per noi e delle 127 ore per lui, Danny Boyle costruisce a tavolino i presupposti per dare adito al pubblico di cambiare atteggiamento nei confronti di Ralston.
Il disprezzo muta così in speranza che qualcuno arrivi e lo tiri fuori, ma l’unico gesto che potrà salvarlo sarà una scena da lasciarvi a bocca aperta – il motivo, l’unico a dir la verità, per cui devono aver pensato fosse una buona idea trarre un film da questa storia.
Troppo rumore per…
Sebbene 127 ore non sia affatto un brutto film, appare esagerato il chiasso che lo ha accompagnato fino alla notte degli Oscar.
Danny Boyle ha fatto un discreto lavoro, ma dovendo scegliere un film ben sceneggiato riguardante un uomo bloccato da qualche parte sarebbe stato più opportuno votare per Rodrigo Cortés e il suo claustrofobico Buried.
Lì la sceneggiatura crea dei giochi divertenti, preoccupanti, stimolanti al punto da trasmetterti fisicamente la sensazione di essere chiuso nella bara con il protagonista, e questo grazie soprattutto all’inventiva di un regista in condizioni spaventose e limitanti.
La verità è che piace abbastanza
Il caso di 127 ore è diverso: un cliché apprezzato dagli statunitensi, una classica storia di redenzione con tanto di morale allegata sul finale.
Non c’è però bisogno di cedere alla severità: 127 ore intrattiene a modo suo e James Franco si cala alla perfezione nei panni di un personaggio affogato nell’egocentrismo – forse perché lui stesso non è lontano dall’identificarsi in una personalità simile – restituendo un’interpretazione veritiera dal primo all’ultimo minuto.
Peccato per Boyle (e Franco stesso) che non ci fossero reali occasioni per rendere la vicenda visivamente ancor più avvincente. Diciamo che a conti fatti riusciamo a farci bastare la bellezza degli scenari, fotografati come vere e proprie cartoline, parte di un tutt’uno perfetto per una serata. Passata la singola visione, 127 ore può anche rimanere a vita sullo scaffale.
Fausto Vernazzani
Voto: 3/5