Un giorno perfetto che non passa mai
La reverenza ai grandi nomi: parliamone.
La famiglia in crisi. Parliamo anche di questo.
Fra le due cose un nesso c’è.
Un nesso chiamato Ozpetek
Dal calderone peschiamo Ferzan Ozpetek, con il suo cinema fatto di pupille strette e intimità, eppure sfiorante l’astratto. La quotidianità raccontata dalle nuvole con delicatezza e sufficiente distacco: un punto di forza del pluripremiato regista che, non senza una punta di amarezza, amiamo ricordare per Il bagno turco, Le fate ignoranti, La finestra di fronte.
Ma già con il tragico Saturno Contro, i ricordi tendono a sbiadire. Certo, Pier Francesco Favino fa la differenza: i suoi occhi lucidi piantati in camera non vanno via, loro no, scavano tanto lo schermo quanto la memoria. Paradossale ma vero, Ferzy salva le sue pellicole affidandole agli attori.
E se il dolore che queste trasudano risulta fin troppo estetizzato, artificioso, tanto di cappello: è pur sempre il grande Ozpetek – urla la folla.
Tremende soluzioni
Intanto però la soluzione di Saturno Contro viene adottata ancora una volta, ed è il caso di Un giorno perfetto: più che tragico, un film tremendo.
Stavolta a tener su il castello (di carte?) c’è Valerio Mastandrea, perfettamente calato nel ruolo di Antonio, padre nevrotico che assiste impotente alla fine della sua vita coniugale e famigliare. A vestire i panni della moglie Emma la monoespressiva Isabella Ferrari: una donna libertina, provocante e provocatoria, che tenta a morsi – o sarebbe meglio dire, a leccate – di riconquistare la gioventù perduta.
In parallelo, ma in realtà sullo sfondo, altre unioni si dissolvono spazzate via da negligenza ed egoismo.
Mala tempora
La solita tiritera dei valori perduti, in poche parole. Mala tempora. Un giorno perfetto gioca sporco, come un pugile convinto di vincere battendo sotto la cintura. Se la visione intimistica del regista rimane invariata (sguardi in macchina, primissimi piani, ambientazioni domestiche) a cambiare sono invece i parametri entro cui si evolve la narrazione.
C’è un’attenzione morbosa a dettagli in tutto e per tutto superflui, se non fuorvianti, che irritante è dir poco. Mentre il fantasma della separazione si riduce a nient’altro che una parola – divorzio divorzio divorzio – ripetuta fino alla nausea, nel tentativo di giustificare allo stesso tempo le manie omicide di Antonio e la totale assenza di coinvolgimento da parte di Emma.
La quale, giustamente, con una crisi famigliare in corso e a distanza di poche ore dal suo licenziamento, sceglie di trascorrere un’intera giornata al cazzeggio, concedendosi pure un bel gelato.C’è forse un’accusa velata alla sua figura di madre snaturata? Meglio passare alla domanda successiva.
Un giorno perfetto vale davvero la candela?
Verrebbe naturale da storcere il naso. Quel che è certo è che Ozpetek colpisce, come si diceva prima, molto, molto in basso, puntando ancora una volta alle viscere – e pure un po’ alle ghiandole lacrimali.
I simboli da lui creati sono pacchiani – un murales orrido, una biglia abbandonata sulla moquette, un aquilone destinato a non volare; aggiunge contorni inutili a un dramma già fin troppo definito – il dvd de La marche de l’empereur che s’inceppa e fa da colonna sonora diegetica all’ultimo atto.
Per coloro che hanno goduto del film di Luc Jacquet e delle canzoni che l’accompagnano, i traumi saranno più di uno. Lo sconto di pena per lo spettatore medio è relativo: alla fine potrebbe rendersi conto di quanto novantacinque minuti, qualche volta, riescano a passare molto più lentamente di una giornata intera.
Il merito comunque non è tutto di Ferzan: alla fonte c’è il romanzo (omonimo) di Melania Mazzucco. Non sappiamo com’è e non ci esprimiamo: il film è un’altra cosa.
Francesca Fichera
Voto: 2/5