Worldbuilding dal sud est asiatico per il cinquantanovesimo classico Disney
Niente incarna meglio il processo di globalizzazione dell’immaginario della Walt Disney Company. Mentre tonnellate di altri studi faticano a riconoscere le proprie identità, l’irrudicibile mega-major di Burbank ha bene in mente come tenere salda la presa sul mondo che lei stessa ha contribuito a codificare con oltre ottant’anni di produzioni entrate nel comune intendere. I classici Disney sono parte del caleidoscopico codice linguistico di un brand diffuso in tutto il mondo. Un globo costituito da macro e micro culture, queste ultime oggi al centro delle attenzioni della Disney. Conquista l’infinitesimale per ottenere uno spazio nell’infinito. Fra tokenism sfrontato nelle produzioni live action e non-luoghi indefinibili nel complesso del nostro immaginario contemporaneo (universi Marvel e Star Wars), consegna al suo storico braccio animato lo scopo di infondere la vita e animare l’inanimato: le culture scarsamente rappresentate. Va in cerca delle pecorelle perdute.
Raya e l’ultimo drago è sorella di Moana (da noi distribuito come Oceania per evitare di inciampare nella scomoda figura pornografica di Moana Pozzi) nel suo offrirsi come finestra su leggende lontane. Ci affacciammo nel 2016 sui miti polinesiani, adesso siamo nel sud-est asiatico fra differenti culture racchiuse in una singola caratteristica area geografica: Singapore, Laos, Vietnam, Thailandia, Cambogia, Malesia, Indonesia. Mulan guardò (e guarda) alla greater China, draghi con cui non c’è da confondersi rispetto alle rappresentazioni del sud, pur portando con sé svariati elementi in comune. Il drago cinese segna fortuna e prosperità, il last dragon di Raya è invece un Nāga. Fra le terre del sud est asiatico il nāga è un uomo-serpente, condivide tratti con gli umani e, in particolare, già per le popolazioni Hopi dell’India, sono un simbolo di fertilità legato all’ambiente prediletto: le acque e le umide cavità della terra. E l’acqua, si sa, è portatrice di speranza.
Tokenism tematico
Quella del cinquantanovesimo classico Disney è un’avventura fantastica dalle molteplici letture capaci di farne un’opera definibile di “tokenism tematico”, però fatto bene. È ambientalista, inclusiva e anti-mascolinità tossica. Sono tre colonne portanti del dibattito culturale contemporaneo – a cui direi manca la sempre più scalfita libertà di espressione – a dovere rappresentate sullo sfondo di una quest delle più classiche. L’antica Kumandra prospera e unita, da quando i draghi si sono sacrificati contro la piaga dei Druun per salvare l’umanità, è oggi divisa e impoverita: le cinque fazioni sono in lotta fra loro e solo il capo Benja della tribù degli Heart sembra nutrire in cuor suo (pun intended) la speranza di una riunificazione. Gli Heart parlano però da una posizione privilegiata, custodi della gemma con cui i draghi salvarono gli uomini.
In un tentativo di pace fallito, le altre quattro tribù distruggono la gemma e la magia che teneva lontani i Druun, causando il ritorno delle creature e l’immediata trasformazione in pietra di tutto ciò che toccano, a partire dal villaggio degli Heart e l’intera sua popolazione, eccetto la figlia di Benja, Raya. Invaghita del sogno del padre, fu Raya ad aprire le porte all’ingresso della sala dove gli Heart proteggevano la gemma, per mostrarla all’appena conosciuta figlia della regina dei Fang, Namaari. Fiducia immediatamente tradita, sentimento cresciuto negli anni verso la tarda adolescenza in cui, superstite degli Heart, si imbarca nell’unica missione possibile per salvare la sua tribù dal restare pietra per sempre: recuperare i frammenti della gemma, divisa tra le cinque tribù, ricostruirla e svegliare il drago Sisu, di cui si dice che riposi all’interno di una cava. Ed è così.
Il background i Raya and the Last Dragon è raccontato attraverso spiegoni ben incastrati nel prologo, Qui Nguyen e Adele Lim scrivono una sceneggiatura che non fa una piega. Quando la quest – molto anni Ottanta – entra nel vivo sappiamo già tutto, siamo solo all’interno di un viaggio alla scoperta di Kumandra, tra le differenti tradizioni e culture che la costituiscono. Ecco dove il sud-est asiatico è rappresentato, nei suoi dettagli e raccolto in un bouquet di palette ben delimitate. È la classica mappa delle terre fantastiche, abbiamo la città lagunare (Talon) e quella affacciata sul corso d’acqua (Tail), la sperduta nel bosco innevato (Spine), quella immersa nella foresta (Heart) e la ricca poggiata su stupendi giardini pensili (Fang). Il genio sta nell’aver disegnato Kumandra come il corpo di un drago e ogni città risiede nel punto del corpo indicato dal suo nome.

Prendi il mondo e mettilo da parte
Don Hall e Carlos López Estrada hanno per le mani la possibilità di impegnarsi in toto nell’apologia delle virtù, un marchio tipico dei classici Disney. Conosciamo la storia dei popoli e i colori che li distinguono, sappiamo dove vivono e dunque qual è il grado di pericolosità di ogni popolo – Fang sono le zanne e Spine la cresta (in italiano artiglio), i due più temuti – e allora perché non occuparsi della storia di formazione? La Raya a cui dà la voce Kelly Marie Tran (l’anno scorso voce anche di Dawn in the Croods: A New Age di cui scriverò non troppo in là) dobbiamo vederla crescere nell’incontro con la sua eroina, il drago Sisu doppiato da Awkwafina, splendida e degna erede delle tante voci “antropomorfe” della Disney del passato, come Eddie Murphy (Mushu) e Robin Williams (Aladdin). Alan Tudyk doppia animali come suo solito, qui è Tuk Tuk.
Il romanzo di formazione scritto da Lim e Nguyen corrisponde agli schemi familiari, c’è il rifiuto dinanzi alla crescita, il primo cedimento, la conferma del proprio bias e infine la maturazione definitiva. Colpisce appunto il viaggio verso la comprensione, sia da un punto di vista estetico che registico, in particolare in un momento: il combattimento tra Raya e Namaari (Gemma Chan) nel colonnato della capitale Fang. Shaky cam, zoom mirati e movimenti seguiti come se le due rivali fossero attrici addestrate alle arte marziali per l’occasione. La macchina da presa vuole gustarsi quei movimenti anche se implicitamente fasulli perché animati. Hall ed Estrada hanno già uno spazio nel best of del 2021 già solo con quella scena, vista e rivista. Sarebbe d’insegnamento per chiunque diriga i combattimenti in VFX – quindi animati – nei blockbuster MCU.
Senza contare l’eccellente qualità dell’animazione, chiaramente evoluta rispetto ai predecessori. Il pelo di Sisu è un incanto, lo stesso dicasi dei capelli semi-asciutti di Raya, è possibile vedere ogni sfumatura e godersela senza togliere nulla a una storia semplice e scritta con un ordine che fa la differenza. C’è da augurarsi che non si trasformi in un classico-flop come lo fu Il pianeta del tesoro, altro esempio di prodotto animato Disney su cui era stato fatto un gran lavoro di worldbuilding, nonostante nascesse dal già ultranoto L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Raya e l’ultimo drago meriterebbe un successo di gran lunga superiore ad altri parenti stretti della Disney (la Pixar per me nel 2021 ha toppato con Onward e Soul, purtroppo) così come meriterebbe un sequel più del mega-successo planetario di Frozen, dove altro da raccontare non c’era.

Non l’ho ancora visto, ma mi attira davvero tanto e la tua recensione mi ha convinto ancora di più che vale la pena guardarlo! Al di là di tutto sono contento che la protagonista sembri diversa da quello che è stato il modello delle eroine nell’ultimo decennio, quello iniziato con Rapunzel ed estremizzato con Anna e Vaiana; dai trailer, come è stato fatto notare in lungo e in largo, sembra che in Raya si respiri aria di Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria, e siccome ho amato follemente quel cartone animato non posso che esserne contento!
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Hmmm… non so quanto ci sia in comune con Avatar, però in un certo senso capisco come mai uno possa vedere delle somiglianze. Però credo sia una questione di aspetto e basta. Vero che lo conosco ancora poco!
Questo comunque è davvero niente male e per la prima volta, anche se non lo dicono, potrebbe davvero essere credibile l’omosessualità di Raya.
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