Qualcuno ha ancora dubbi sulla straordinarietà di Tahar Rahim? Se vi state guardando attorno chiedendovi chi sia, allora è chiaro che dovete ancora aprire le porta al Prophète. Mal che vada con the Mauritanian potrete farvi un’ottima idea dell’immensità del giovane attore francese, curriculum di tutto rispetto alle spalle e nel biopic di Kevin Macdonald ampiamente degno di godersi una lunga award season. Improbabile? Non del tutto, Macdonald ha già un record da Oscar grazie all’eccellente L’ultimo re di Scozia con cui portò Whitaker alla statuetta che lui già vinse nel 1999 col documentario One Day in September nella categoria del miglior film documentario.
Straordinario, immenso, eccellente. Leggendo il trio di aggettivi altisonanti del primo capoverso avrete già capito che the Mauritanian mi è piaciuto assai. Macdonald si dimostra un buon autore di biografici, al contrario della qualità media in cui sguazza il genere più premiato del cinema statunitense. Stavolta la storia raccontata non è di un padrone genocida quale fu Idi Amin Dada, il protagonista interpretato da Rahim è Mohamedou Salahi, per quattordici anni prigioniero nel campo di Guantánamo senza un’accusa ufficiale. La motivazione dell’arresto illegale fu la seguente: Salahi reclutò per al-Qaeda i dirottatori dei voli schiantatisi contro le Torri Gemelle. In sostanza, l’intelligence americana credeva senza prove di avere tra le mani uno degli uomini chiave dietro gli attentati dell’11 settembre.
Vittima della rabbia cieca
Mohamedou Salahi era ed è tutt’ora innocente, libero proprietario di una voragine profonda quattordici anni scavata nella sua vita. Iniziò a descriverla nel 2005 sotto forma di diario, nell’inglese appreso ascoltando i militari di Guantánamo, pubblicato – con gran parte del testo oscurato dall’intelligence – dieci anni dopo, prima del suo rilascio dal carcere. Sulle pagine troviamo le radici di the Mauritanian, sangue, sudore e lacrime riproposte con gran dignità. Macdonald non vuole dare per scontata l’innocenza di Salahi, muove i primi passi col dubbio. L’innocenza è conosciuta guardando negli occhi Nancy Hollander, l’avvocata per i diritti civili che si fece avanti per garantire a Salahi il diritto a essere rappresentato da un legale. A interpretarla è stata una solida e impenetrabile Jodie Foster, anche lei come Rahim abbastanza degna di partecipare all’award season, affiancata dall’assistente legale Teri Duncan di Shailene Woodley.
È tutto fuorché un legal movie, l’avvocato dell’accusa di Benedict Cumberbatch non è il villain e la battaglia non si svolge nell’aula di un tribunale, quando ci arriveremo sarà solo sul finale. La ricerca delle prove pro e contro Salahi è in realtà la lettura per capitoli della sua storia dentro e fuori Guantánamo, in 16:9 fra ricordi vicini, lontani e pure allucinazioni indotte dalle torture subite per mano dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Ricordiamocelo quando pensiamo agli states come a una grande democrazia senza macchia. Piano piano ci si rende conto di quanto ai fini del film siano ininfluenti i personaggi di contorno a Salahi. La storia è la sua, la verità sempre incarnata dalla sua person, gli avvocati è come se ci inciampassero sopra. Una verità simile era incontenibile e incontestabile.

Macdonald ha compiuto un importante servizio decidendo di trasporla in fiction e non documentario, sia perché un soggetto simile lo avrei visto meglio in mano a una documentarista come Laura Poitras, sia perché come ha giustamente compreso discutendo con Mohamedou Salahi, è una vicenda che deve entrare in quante più case è possibile. Che brutto non poter dire cinema, maledetta pandemia. Come può uscire indenne lo spettatore dalla rappresentazioni delle torture, frenetiche, psichedeliche, ininterrotte e a tratti talmente assurde da sembrare romanzate, ma purtroppo esiste la prova schiacciante in un testo qui sullo scaffale, il Senate Intelligence Committee Report on Torture. Anche sulla genesi del rapporto esiste un discreto film, the Report con Adam Driver e di Scott Z. Burns, in streaming su Prime Video, se voleste cominciare a scoprire quanta strada ancora dobbiamo fare sul rispetto dei diritti umani.