Il fiocco a stelle e strisce, prosciutto sugli occhi
Cosa fai quando vuoi bere un succo di frutta in cartone? Lo scuoti senza pietà per mescolare quanto di più denso si è assopito sul fondo. Nelle scorse settimane ho fatto lo stesso con Netflix. Ho preso il laptop con lo streamer acceso e l’ho scotoliato come si deve e PUFF! ho visto salire in superficie una marea di titoli su cui mi sarei fiondato all’istante se solo lo strumento di calcolo interno non avesse deciso che no, non sono interessato a Shah Rukh Khan.
Come si fa a non essere interessati a una delle star più luminose del pianeta? Comprendo come mai verso il cinema del continente indiano – considerarlo una nazione lo trovo folle – si sia sviluppata una brutta forma di diffidenza, ma credo anche nel 2020 dovremmo superare gli stereotipi dentro cui la nostra cultura occidentale ha relegato tutto ciò che non è prodotto e impacchettato all’americana. Posso dirvi che il cinema indiano è bello come tutti gli altri.
Nel preparare la lista del best of 2019 che avevo annunciato ad aGhosto non riesco a trovare rivali a quello che a distanza di molti mesi considero ancora il miglior film dell’anno scorso. Un film indiano. Netflix però ha pensato che dell’ospitata speciale a Shah Rukh Khan il 25 ottobre di un anno fa al “terribile” show di David Letterman non me ne sarei curato. Si sbaglia, di grosso, sia perché per Letterman nutro un curioso fastidio sia perché ho una discreta passione per l’attore indiano, alla pari di altre grandi star internazionali da blockbuster.
Qualche giorno fa l’ho visto. Qualche giorno fa A.O. Scott e Manohla Dargis sul New York Times hanno pubblicato una lista dei migliori attori dell’ultimo ventennio. Sono due eventi scollegati fra loro nel tempo e nell’origine: Letterman è un conduttore che come Teri Garr disse anni fa, non si cura mai dei prodotti artistici che gli ospiti promuovono, Scott e Dargis sono invece critici di una certa statura. C’è un abisso profondissimo fra i tre, però sono statunitensi e in quanto tali si trovano in difficoltà quando si tratta di guardare fuori dai confini.
Stranieri in terra straniera
Su venticinque degli interpreti menzionati da Scott, sono otto gli stranieri, ma quali sono: Toni Servillo è nel cuore degli USA grazie a sì e no due interpretazioni per Sorrentino, Il divo e La grande bellezza. Song Kang-ho grazie alla sua collaborazione con Bong Joon-ho[1] e Kim Min-hee probabilmente fra the Handmaiden e Hong Sang-soo. Zhao Tao? È col big festivaliero della Cina, il grande Jia Zhang-ke. Già con questi quattro nomi è facile capire come Scott abbia scelto l’autore più degli interpreti, diventati grandi col sostegno di chi ha guidato la macchina da presa.
Gli altri quattro sono in ordine Isabelle Huppert e Catherine Deneuve, della serie ti piace vincere facile, Sonia Braga riemersa grazie ad Aquarius e Bacurau e Gael Garcia Bernal che potremmo benissimo definire co-hollywoodiano. Cosa dimostrano di conoscere e apprezzare del resto del mondo sul NYT? In effetti poco, perché è una visione limitata ai grandi nomi da red carpet e nulla più. Fatevi una domanda: possibile che in un mondo intero siano solo otto gli attori e le attrici degne di competere con gli statunitensi? Il cinema si fa solamente negli USA?
Potremmo risponderci con un classico argomento, sono liste personali ed è impossibile includere tutto, però sono dell’idea che critici come Scott e Dargis potevano dimostrare una capacità maggiore di apprezzamento di intere gigantesche cinematografie. Così come di poter uscire dallo schema regista-interprete che lega la star internazionale alla vecchia dinamica autoriale. Non sei nessuno finché non ti prende in carico il/la grande regista[2]. Ma a dirla tutta, è evidente come sia una lista che vorrebbe abbracciare il ventennio e si basa a malapena sugli ultimi dieci anni.
Chi è il mio prossimo ospite?
Torniamo a Shah Rukh Khan, un ospite che come da titolo del programma non ha bisogno di presentazioni. David Letterman però prova a darne una lo stesso e Shah Rukh in persona fra le urla e gli strepiti dei fan si accorge lui stesso del paradosso che lo insegue dal dietro le quinte. Quanto però ho trovato allucinante è che Letterman è stato capace di farlo parlare esclusivamente dei suoi legami artistici con gli states e nulla più. All’estero è considerato il Tom Cruise indiano, si è ispirato fra i tanti all’energia di Michael J. Fox, Peter Sellers e… basta.
Questo è Shah Rukh Khan.
Quali film ha interpretato in trent’anni di carriera? David Letterman non ne conosce nemmeno uno. L’unico che nomina, Dilwale Dulhania La Jayenge è ben noto anche solo con l’acronimo DDLJ e Letterman è stato ben lontano dall’imparare come mettere quattro lettere in fila. Figurarsi vederlo, perché tutto ciò che sa del film è il suo record mondiale, infrangibile: vent’anni nelle sale ininterrottamente. La co-star Kajol? Se non fosse stato per Shah Rukh, Letterman l’avrebbe ignorata, nonostante il lungo sodalizio fra i due interpreti. Perché tutto ciò che ci interessa è sapere che Shah Rukh Khan in casa sua cucina per la famiglia, che è amato da tre miliardi di persone.

Il suo lavoro non è importante.
È un attore indiano, la sensazione è che non abbia valore.
Però è cool sentirlo parlare male con una grazia e una sagacia fenomenale del mitico the Donald. Perché chiedere allo straniero cosa pensa del presidente idiota è un modo non tanto per dare alla discussione un tavolo di confronto equo, ma per sentire lo straniero di un paese inferiore agli USA sfottere chi ti sta antipatico. Persino agli occhi di un indiano gli USA fanno una brutta figura, questo è il concetto. Per cinquantanove minuti ho avuto l’impressione che Letterman si stesse sventolando con le banconote cacciate da Netflix senza curarsi per un istante del lavoro chiamato a svolgere. Perché il mondo esterno agli occhi degli states non esiste e non è degno di essere conosciuto.
Voglio concludere citando un estratto dal testo Le avventurose storie del cinema indiano edito dalla Marsilio nel 1985, precisamente dalla prima pagina delle note introduttive del primo dei due volumi:
Fra i tanti, quello del cinema indiano, è davvero un caso a parte. Sconosciuto non meno di altri, al di fuori dell’asse euroamericano su cui si fonda il novanta per cento del contemporaneo “sapere” cinematografico, esso mette però subito in luce una devianza “scientifica” che, mai come in questo caso, ha del paradossale. Ciò che non si conosce, infatti, non è, questa volta, il fenomeno cinematografico di un isolotto alla periferia dell’impero; oppure il secondario epifenomeno d’una qualche terra esoticamente lontana, impenetrabile in profondità dietro le sue maschere geroglifiche. Stiamo infatti parlando della realtà cinematografica della più popolosa “democrazia” della terra. […] misconoscere il cinema indiano, o ridurne la realtà a qualche titolo della filmografia del pur grandissimo Satyajit Ray e a sporadiche epifanie festivaliere – il che è condizione comune della (quasi) totalità della critica “occidentale” – non costituisce un limite culturale ma vera e propria ignoranza: un caso macroscopico di un “sapere” gravemente inficiato da vezzi eurocentrici, da vizi paleocoloniali e da quella grave malattia del ‘900 che è l’europrovincialismo.
Questo fu scritto trentacinque anni fa e io lo applicherei al mondo intero. La vera conclusione vorrei fosse un in memoriam, dall’inizio dell’anno sono morte quattro figure storiche del cinema indiano:
Soumitra Chatterjee (1935 – 2020)
Rishi Kapoor (1952 – 2020)
Saroj Khan (1948 – 2020)
Irrfan Khan (1967 – 2020)
Per quanto mi riguarda, Irrfan Khan meritava di essere nella lista del New York Times.
[1] Lo spezzone dedicato a Song Kang-ho è lo stesso Bong Joon-ho a scriverlo sul NYT, ed è solo grazie a lui che viene ricordata la sua collaborazione con un altro straordinario regista coreano, Lee Chang-dong.
[2] Una “malattia” di cui è caduta vittima anche Daria Nicolodi, defunta a settant’anni e ricordata per essere madre di Asia e attrice per Dario Argento. Chi era Daria Nicolodi e basta, chissà. Cosa importa?