Quando il cuore casca in fondo al mare
Al buon Sol Kyung-gu piace farmi piangere, adesso lo so. Ogni tanto spunta l’argomento film strappalacrime e io ho già la bocca aperta a “O” per pronunciare Hope, il dramma sullo stupro di una bambina che vedeva proprio Sol Kyung-gu nel devastante – sì, ogni tanto si può usare seriamente ‘sto aggettivo – ruolo del padre. Ed è tragicamente padre anche stavolta, in Birthday del regista Lee Jong-un e prodotto fra i vari da Lee Chang-dong.
Uscì nell’aprile del 2019 in Corea del sud e quello stesso mese aprì il far east film festival: immagino che serata d’apertura straziante e ora vorrete anche sapere perché, mi sembra giusto. Però è necessario fare un piccolo preambolo e fare un nome, anzi, una data: 16 aprile 2014. Chiunque segua la Corea del sud, abbia amici laggiù oppure si interessi alla cronaca internazionale, sa cosa accadde: il naufragio del Sewol.
Una tragedia evitabile
Un traghetto dal porto di Incheon – la città protagonista di Peninsula, facciamo un po’ di geografia filmica – affondò nel tragitto verso Jeju causando centinaia di vittime. Duecentocinquanta di loro erano studenti di un liceo. In inglese, ironicamente, dovrei dire let that sink in per spingervi a riflettere e avrebbe un senso: lasciate che questo pensiero affondi in quell’angolo di cuore dove sorridono i vostri affetti. Duecentocinquanta studenti.
Una comunità a cui hanno tolto il futuro e dal 16 aprile 2014 è costretta ad annaspare in cerca di ossigeno, una scuola che sanguina da centinaia di banchi vuoti, un pugno di sopravvissuti lanciati nel vuoto. La tragedia, in sé immensa, non naufragò col Sewol: vi furono delle responsabilità. Il capitano, ad esempio, fu condannato all’ergastolo. Quei duecentocinquanta giovani sono morti per un errore che un tribunale ha dichiarato evitabile.
Senza il festeggiato
Su-ho era uno di quegli studnti e sta per arrivare il suo compleanno in Birthday, da cui il titolo. È l’unico ragazzo per cui la famiglia non ha mai organizzato una celebrazione per ricordarlo insieme agli amici sopravvissuti, esterni alla scuola piagata dal naufragio e con le famiglie dei morti. È un rito collettivo ripetuto per tentare di rimarginare una ferita, spezzare la solitudine e tenere vivo il ricordo positivo di chi la vita l’ha persa.
La differenza tra Su-ho e gli altri compagni è nei genitori. La madre Soon-nam (Jeon Do-yeon, magnifica qui tanto quanto in Beasts Clawing at Straws) è affondata a sua volta nel dolore e non desidera uscirne, tenta nell’immutabilità del lutto di mantenere vivo l’ultimo momento di vita del figlio: per lei Su-ho ormai esiste solo in quella sofferenza. Il padre Jung-il (Sol Kyung-gu) è stato per anni lontano in Vietnam per lavoro, talmente a lungo da non essere neanche riconosciuto dalla figlia piccola Ye-sol (Km Bo-min).
Sarà proprio lui a innescare l’elaborazione del lutto e accettare che il compleanno si festeggi. I successivi 80-90 minuti avranno il peso di un macigno sulle spalle di Soon-nam e Jung-il, nell’attesa di quella mezz’ora conclusiva. Preparatevi a pianti in scena e anche davanti allo schermo quando il birthday sarà festeggiato: ricordi, oggetti, detti e affetti raccolti attorno a un solo dolore, a ricordare la gigantesca “piccola” vita recisa precocemente.

Facciamoci piccoli
È il primo film ad affrontare l’argomento Sewol. A distanza il primo pensiero è circa l’incertezza sul metodo con cui affrontare una tematica assai complicata. Il pericolo di esagerare sul piano politico rischia di polarizzare il pubblico e focalizzarlo sugli appuntamenti in tribunale, mettendo in disparte la tragedia umana. D’altra parte volere pestare il piede solo su quest’ultima può avere l’effetto di strumentalizzare il dramma al fine di commuovere lo spettatore coinvolgendolo in un racconto strappalacrime irrispettoso dell’anima dei coinvolti.
Lee Jong-un che il film lo ha anche scritto è disinteressato all’aspetto politico-giuridico. Birthday della ricostruzione non se ne cura e anche quando sembra lasciare intendere la sua posizione con delicatezza, torna a porsi in lontananza per evidenziare l’unico aspetto rilevante: un lutto da elaborare e una famiglia da ricostruire. Lee ha scelto dunque la via della tragedia umana, percorrendola di lato: non si tuffa nel fiume in piena, segue il dramma parallelamente con gli occhi di un uomo che non ha potuto esserci, non ha vissuto il fulcro della vicenda.
L’inevitabile uso del flashback per coinvolgere Su-ho nella storia è sempre concentrato sul rapporto col padre, il Sewol non lo vediamo mai, se non nelle parole degli studenti che sul finale scelgono di ricordare. Dettagli ripresi da storie vere, storie di eroismo e di amicizia che vi spezzeranno il cuore e al contempo ve lo abbracceranno, perché l’umanità di Birthday è quella buona: il male scorre nel fiume e Lee Jong-un non intende tuffarvisi dentro.
Preferisce investire il suo tempo in quei momenti passati fra Jung-il e Su-ho, oppure nell’osservare come la piccola Ye-sol processa l’assenza del fratello e per nostra fortuna, Lee Jong-un ci risparmia il personaggio della bambina come esempio di perfezione innocente. Lei affronta un lutto, a modo suo, considerando il passato ancora parte del suo presente. Così come Lee Jong-un rende quei brevi flashback quasi parte del presente cinematografico.
L’assenza di Su-ho è dunque ancora imperfetta. Per Soon-nam è il figlio è dietro l’angolo, per Jung-il è nella realizzazione dei minuscoli passi verso sogni incompiuti, un modo di partecipare laddove non c’è stato. La regia in questo casca in secondo piano, perché la forza di Birthday risiede nella sceneggiatura e in secondo luogo nei due protagonisti. Al dolore di Jeon Do-yeon è impossibile non credere ed è certo che se non ci fosse stato Parasite nel mezzo, ai Blue Dragon Awards quel premio come miglior attrice protagonista l’avrebbe vinto.
Con questo va dunque aggiunto che Lee Jong-un è da rimandare al prossimo film per un reale giudizio sul suo talento da regista – promosso a pieni voti come sceneggiatore, ha camminato sui carboni ardenti e ne è uscito vincitore – e quella sua encomiabile delicatezza potrebbe anche essere costata in termini di “memorabilità”. Dei talenti coinvolti, il lato registico appare forse come il più sacrificabile, ma ciò non significa il suo valore sia nullo.
È una storia straziante che rinvigorisce la necessità di elaborare un lutto senza lasciare che ci stritoli dall’interno, inoltre dà finalmente all’immaginario una voce al naufragio del Sewol e ai suoi morti, ma soprattutto ai vivi. Coloro che hanno dovuto vedere sullo schermo di un televisore una nave affondare con dentro i propri cari e duecentocinquanta figli e figlie della Corea del sud, di questo piccolo maledetto mondo in cui viviamo.
Vi lascio con un breve estratto da I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe. Siamo a pagina 20 su 700 dell’edizione della Oxford University Press, quindi non vi faccio spoiler contestualizzandolo: è parte di un discorso che St. Aubert fa a sua figlia Emily a non molta distanza dalla morte della madre. Ritengo sia un’ideale descrizione del vortice in cui cade Soon-nam. Ah, considerate che il linguaggio è quello di un romanzo del Settecento, da qui i riferimenti a Dio, a cui da non credente non do peso. Spero la traduzione sia chiara e… a giovedì, con una recensione più allegra!
Ogni eccesso è malvagio. Anche quella sofferenza, così amabile nelle sue origini, diventa una passione egoista e ingiusta, se a essa ci concediamo alle spese dei nostri doveri. Per nostri doveri intendo ciò che dobbiamo a noi stessi, così come agli altri. Crogiolarsi nel lutto fiacca la mente e neutralizza la sua capacità di prender nuovamente parte a quei piccoli innocenti svaghi che un buon Dio ha creato per essere la luce delle nostre vite.
