Deliver Us from Evil, manuale dei cliché dell’action thriller
In cerca di un titolo cool? Sfoglia le sacre scritture. Il problema è che a liberarci del male ci hanno già pensato altri film e dunque la prima impressione è che per questo ritorno alla regia di Hong Won-chan non vi era in programma una sofisticata ricerca di originalità per il popolare action thriller alla coreana. Di norma non mi prenderei nemmeno la briga di scrivere un articolo su un film sud coreano che non consiglierei, dato che gli articoli meno letti su CineFatti provengono tutti proprio dalla mitologica peninsula asiatica, ma di Deliver Us from Evil voglio parlarne.
La motivazione è una: è il perfetto esempio di un film scritto, diretto e interpretato con radici solide solo in una serie di stereotipi ormai abusati. Anche dai coreani stessi, perché, diciamocelo: l’abuso di un cliché da parte di uno specifico mercato è percepito in genere solo da un pubblico di forti consumatori, nel momento in cui fa il suo ingresso altrove può trovare nuova linfa vitale e portare al successo. Un esempio pratico e tutto italiano è la cara trilogia di Smetto quando voglio, misto di trame prettamente statunitensi.
Sola andata per Bangkok
Il problema di Deliver Us from Evil è che il thriller d’azione è praticamente un genere loro. Lo dominano da un paio di decenni e ora da qualche anno si inizia a sentire pesante l’età e il numero di capelli bianchi aumenta, al punto da spingere – ed è una mia opinione personale – a tornare a imitare quegli autori che sono cresciuti visivamente a pane e Corea. Guardando Deliver Us from Evil non ho potuto fare a meno di pensare ogni minuto a Only God Forgives di Nicolas Winding Refn, per ambientazione e soprattutto per lo stile fotografico.
Faccio un passo indietro e descrivo velocemente la trama: Hwang Jung-min viene dall’intelligence coreana, caduto nell’anonimato in seguito allo smantellamento della stessa e ora impiegato come sicario, a patto che le vittime siano dei bastardi patentati. Portato a casa l’ultimo assassinio, scopre che la sua amante di un tempo è morta a Bangkok e che la figlia rapita per il traffico di organi potrebbe essere la sua. Finisce qui? No, ci vuole il grand villaìn ed è Lee Jung-jae, spietato criminale macellaio nonché tenero fratellino dell’ultimo assassinato dal sicario.
Ora posso proseguire con l’elenco:
- Hwang Jung-min è il sicario con cicatrici affettive. Silenzioso, fatti e non chiacchiere.
- Lee Jung-jae tatuato ed eccentrico, abbigliamento colorato e chiacchierone assai.
- Thailandia uguale terzo mondo, ergo filtro giallo smarmellato a mille.
- Il Giappone, ricco e spento, quindi desaturiamo l’atmosfera che è meglio.
- Spalla comica? Park Jung-min che interpreta un “buffo” trans è l’ideale.
- Il finale non lo spoilero, ma è calcolabile matematicamente.
Niente paura, niente timore
Deliver Us from Evil ti culla con le sue sicurezze, senza proporre alcuna sorpresa offre un porto sicuro. Il suo autore potrebbe essere un’intelligenza artificiale oppure uno studente appena uscito dalla scuola di cinema. Non mi capitava da tempo di guardare un film così scontato da lasciarmi totalmente indifferente. Eppure, forse proprio questo, è il pregio grazie a cui ha ottenuto il secondo posto al box office 2020 in Sud Corea, secondo solo a the Man Standing Next e sopra di svariati milioni al povero Peninsula, rimasto orfano del mercato internazionale.
È un film a metà fra il mondo pseudo-artistico di Refn, con scenari dai colori sgargianti ereditati da un Bava a caso, interpretazioni profonde – Hwang Jung-min ai miei occhi è un mago per come riesce a passare dal serio al faceto – che sembrano replicare la seraficità di Ryan Gosling, e un action movie qualsiasi. La verità: Deliver Us from Evil soffre delle sue velleità artistiche, frena sempre quando potrebbe osare e restituire anche in immagini quel ritratto drammatico che fa del traffico di bambini per il mercato nero degli organi umani.

Violenza pg-13
Invece no, quando il coltello di Lee Jung-jae sta per sferzare il suo colpo la macchina da presa taglia troppo presto. Ed è una tattica ripetuta per l’intera durata del film: a parole mira a una violenza estrema, nella rappresentazione vi è invece ben poco di realizzato. Uno potrebbe pensare a un giusto risparmio sulla violenza gratuita, ma Deliver Us from Evil comincia dal titolo a indicare un mondo malato, sporco e invece nemmeno nelle scene di torture riesce a trasmettere l’orrore. Sangue finto però ne hanno usato comunque un bel po’, senza senso.
Va da sé che il coinvolgimento emotivo è sottile. Lo stesso rapporto fra la bambina e Hwang Jung-min è inesistente, l’unico arco narrativo completo è quello di Park Jung-min, e sarebbe stato meglio non lo fosse. È comico perché è trans, capito no? Tralasciamo. L’unica nota di merito, per così dire, la trovo in quegli schizzati sucker PANch. Li ho ribattezzati così, pan rapidissimi della macchina da presa che seguono i cazzotti di Hwang Jung-min. Aggiungono dinamicità all’azione, l’unica a onor del vero, perché dopo 24 ore ricordo davvero ben poco.
Forse domani Deliver Us from Evil sarà già nel dimenticatoio.