The Handmaid’s Tale 2 torna a ricordarci che al peggio non c’è mai fine
Sempre peggio, sempre meglio: per quanto (o forse proprio perché) ossimorica, come sintesi della seconda stagione di The Handmaid’s Tale potrebbe funzionare.
Bene.
Adesso alzi la mano chi dopo il quarto episodio avrebbe giurato di avere toccato il fondo – sul piano del dolore, s’intende. Insomma, chi è con me? Perché io la mano la alzo, eccome se la alzo.
Tanto poi bisogna comunque fare i conti con quel muro di cemento che sono i tre capitoli prima del finale (per la precisione decimo, undicesimo e dodicesimo episodio) e lasciarsi spezzare una falange alla volta dall’idea che lo strazio ha mille modi di manifestarsi e, soprattutto, di non finire.
In una vasca che si scalda poco a poco
Bollire a fuoco lento è il diktat: una metafora, certo, ma anche e prima di tutto un processo che investe non soltanto le sventurate ancelle del racconto di Margaret Atwood, bensì la società tutta.
E la scrittura della seconda stagione arriva a dimostrarlo con una violenza e una forza inaudite, riuscendo nella delicata impresa di svincolarsi dalla fonte letteraria senza tradirne il senso ma, anzi, restituendogli vigore.
Perché con June, con Emily, con Janine – Remember their names, come recita la tagline della settima puntata – soffriamo più di quanto avremmo mai potuto immaginare di soffrire, nella sciocca convinzione che la prima stagione della serie ci avesse già mostrato, se non tutto, quanto bastava.
Il nuovo volto della cattiveria
Invece sono tante e soprattutto nuove le facce della medaglia di Gilead raccontate in The Handmaid’s Tale 2, a cominciare dalle ombre: dai cattivi.
Zia Lydia (quel mostro di bravura di Ann Dowd) è in testa, seguita (quando non raggiunta) dal personaggio di Serena Joy (Yvonne Strahovski), il cuore più profondo di questa seconda parte della serie assieme alla sempre vibrante e carismatica June di Elisabeth Moss.
In loro e con loro prende forma uno strappo umano e ancora umano, tutta l’energia lacerante della contraddizione che dal mondo interiore si riflette all’esterno per completare un perfetto e mai monodimensionale campionario di identità femminili e conflitti di genere.
Resistere, resistere, resistere
Sono tante le facce di donna (e di uomo) che The Handmaid’s Tale 2 è capace di imprimere nella nostra memoria, accanto a una miriade di scene spettacolari – il funerale delle ancelle, Janine che canta sul davanzale della finestra, l’esplosione, il click della penna a sfera, il bagno di sangue, il parto, l’esecuzione in piscina – nell’aspetto come nei temi.
Ma la cosa più straordinaria che la serie Hulu riesce a fare sta nell’instillare l’istinto a mantenere le distanze fra il mondo nello schermo e quello al di là e, al netto dell’inquietante coincidenza che ha visto sovrapporsi la tragedia ai confini del Messico con i fatti raccontati in Last Ceremony, la consapevolezza che resta una fortuna il potere permettersi di farlo.
Anche se l’acqua sta cominciando a scaldarsi.
L’ha ribloggato su La finestra di Hoppere ha commentato:
The Handmaid’s Tale 2 – Una specie di recensione
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